Arte

Visita virtuale alla rembrandtiana “Ronda di notte”

Approfitto dell’attuale regime di chiusura per compiere in misura quasi autorizzata e obbligatoria delle visite virtuali a grandi capolavori, che diversamente sarebbe temerario da parte mia andare a commentare, senza neppure qualche appiglio occasionale. Oggi mi rivolgo nientemeno che alla “Ronda di notte”, massimo capolavoro di Rembrandt, conservato con ogni cura nel Rijksmuseum di Amsterdam, e ora appunto offerto in visione speciale per via elettronica. Se si pensa che il dipinto fu commissionato nel 1642, in occasione di una visita della longeva regina di Francia Maria de’ Medici, sopravvissuta a lutti e crisi innumerevoli, non si può che manifestare stupore al pensiero che a quella poderosa sovrana era stato dedicata poco prima l’alta impresa di Rubens, punta estrema del barocco, opera, potremmo dire in termini attuali, generosamente bulimica, esplosiva, inclusiva al massimo. Rembrandt aveva invece un atteggiamento opposto, di andare a rinchiudersi nel privato di abitazioni, o magari anche di sedi pubbliche, come in questo caso, ma a patto di sbarrarle, di portarne gli occupanti a stringersi tra loro, cosa che oggi, in stagione di contagio, sarebbe altamente sconsigliabile. Ma in sostanza era nel nostro artista una eredità dal connazionale Frans Hals, come lui intento a stendere ritratti celebrativi di persone influenti, e ben paganti. Qui siamo quasi alla foto-ricordo di una compagine di soci di un qualche club molto esclusivo, che si assiepano, rispettando un certo ordine gerarchico, ma anche sgomitano per la paura di essere tagliati fuori dalla foto-ricordo. E naturalmente domina l’oscurità dello spazio chiuso, dell’antro, da cui Rembrandt non è quasi mai uscito. In ciò sta la continua conferma di un atteggiamento in cui l’individualismo, il senso della privacy di un ebreo abituato a diffidare degli spazi pubblici si fonde a meraviglia con lo spirito del tutto affine del protestante, l’uno e l’altro in fiera rivolta contro il costume cattolico fondato sull’ estroversione eloquente e magnanima, e anche contro i sistemi di governo riposti sul primato di poteri assoluti, della monarchia, della chiesa di Roma. Roma del resto dal nostro artista è sempre stata vista come il nemico, come la Gomorra da evitare, con perfetta continuità, un secolo dopo, rispetto alle varie riforme protestanti, che del resto erano tutt’altro che sopite ma imperversavano nel cuore dell’Europa nei conflitto dei Trent’anni. Non che Rembrandt fosse del tutto alieno dal riconoscere la grandezza dell’età classica, al contrario, nel suo antro era disposto a evocare gli spiriti magni del buon tempo antico, come per esempio quello di Aristotele, ma a patto che scendessero dal piedistallo e che accettassero in pieno l’ospitalità del fiero e austero abitatore, indossando magari gli abiti da lui stesso prestati, in modo che la loro apparizione non stonasse, non apparisse sopra le righe rispetto ad ogni altro spettacolo, anche di banale e trita domesticità, che poteva addirsi a quelle segrete stanze. Il galateo rembrandtiano, insomma, non ammetteva alcuna diversità di codice se a posare fosse uno spirito magno del passato, o un esponente della tematica sacra, Bibbia o Vangelo che fosse, e naturalmente anche le donne dovevano adattarsi a fare le buone sacerdotesse di quei templi della privacy, senza alcun particolare spicco, né di avvenenza corporale né di abiti indossati. Naturalmente, se ritorniamo alla “Ronda”, quella era un’occasione pubblica, ma da celebrarsi riportandola il più possibile a dimensioni private, come si diceva, di riunione di amici, di sodali, disponibili a pagare una retta per entrare in quel ristretto convivio, con una prodigiosa inflazione di ritratti, ma attenti a non superare la soglia di una sacra, gelosa, guardinga interiorità, seppure coniugata a un momento di socialità, ma da manifestarsi in poco spazio, come una retata di pesci occhieggianti attraverso le maglie dello strascico che le aveva catturate. Forse, se si vuole nobilitare il tutto con una citazione dall’antichità romana, si potrebbero ricordare le Colonne erette alla gloria di qualche imperatore, a cominciare dalla più importante tra tutte, la Colonna Traiana, dove i mille legionari appaiono come capocchie di spillo, come tante figurine assiepate in poco spazio. Anche qui, volendo, si potrebbe andare alla conta dei numerosi figuranti, cui, senza dubbio, gli industri studiosi sarebbero in grado di appiccicare un nome, un titolo di merito, beninteso nel rispetto di una graduatoria, di una scala sociale.

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