Letteratura

Virzì: una gioia non tanto pazza

Ancora una volta mi valgo del diritto più volte proclamato di far rientrare in una rubrica di specie narratologica, dedicata cioè a racconti e romanzi, anche le opere cinematografiche. In questo caso l’esame si rivolge all’ultimo film di Paolo Virzì, “La pazza gioia”, con cui il regista evidentemente pensa di aver toccato un culmine di un’ascesa progressiva, le cui tappe anteriori sono state costituite da “La prima cosa bella”, 2010, e dal “Capitale umano”, 2013, il che oltretutto sembra attestare un procedere con un ritmo di uscite triennali. Che quest’ultimo prodotto sia particolarmente ambizioso, lo attesta il fatto che almeno, qui a Bologna, il film è programmato in molte sale, secondo il criterio in genere accordato ai successi assicurati, Ma mi dispiace fare il guastafeste, mi sembra che questa ultima opera non consacri la marcia ascendente, segni invece un passo indietro. O meglio, vi assistiamo a una recitazione superba delle due primedonne, Valeria Bruni Tedeschi e Micaela Ramazzotti, che costituiscono la “prima cosa bella” della pellicola, tanto per parafrasare l’opera precedente, ma perfino un po’ troppo, ovvero, si potrebbe chiosare adattando una battuta celebre, guai al film che ha bisogno di stare in piedi reggendosi su un’interpretazione eccezionale degli attori. Entrambe bravissime, nei rispettivi ruoli, la Bruni, di personaggio effervescente ma eternamente svitato, leggero e instabile, volubile, prigioniero di incontrollati estri momentanei. L’altra, all’opposto, una compagna dai riflessi lenti, torbidi, schiacciata da ombre, rimorsi, patimenti segreti che stentano a uscir fuori, covando sotto traccia. La loro felice accoppiata ricorda immediatamente dei precedenti illustri, inevitabile pensare a Thelma e Louise del film di Ridley Scott, ma qui cominciano i passi indietro, gli indugi, i tentennamenti del regista, che manca di coraggio. In fondo, le sue eroine, vittime della società, e delle rispettive colpe, che le hanno trascinate in una casa protetta, sostituto di un manicomio in versione moderna ed edulcorata, una volta costrette a constatare ripetutamente l’ostilità nei loro confronti da parte dei “normali”, avrebbero dovuto andare verso il sacrificio estremo, e così pare aver pensato lo stesso Virzì, ma poi, al momento estremo, è stato preso da un dannoso “buonismo” che lo ha indotto a risparmiarle, e a ricominciare daccapo un copione già percorso. Le due, appunto, si incontrano in una casa protetta, familiarizzano, si danno a fughe ripetute, a trasgressioni a catena, senza che alcuna di queste rechi il colpo definitivo, finisca per travolgere completamente il loro residuo equilibrio psichico. Come birilli tenuti in pedi da una molla interna, dopo ogni rovescio le due si risollevano e ricominciano, fra l’altro salvate anche da un buonismo che il regista applica ugualmente ai vari organi di tutela e di correzione, sempre pronti a riaccoglierle e a consentir loro di riprendere il gioco di coppia. Anche in questo caso Virzì rasenta un altro classico, il formidabile “Qualcuno volò sul nido del cuculo”, capolavoro di Milos Forman, però, ancora una volta, il pavido seguace non osa il gesto estremo. Si sa che il protagonista di quel film, lo splendido Jack Nicholson, si merita una finale lobotomia che lo lascia in stato semi-demenziale. In fondo, verosimiglianza vorrebbe che anche sul personaggio della Ramazzotti venisse esercitata qualche forma estrema di prevenzione, lei stessa giunge a implorare di essere sottoposta all’elettroshock, forse unica soluzione per dare tregua al cruccio, livore, senso di colpa che coltiva entro di sé. Ma il regista, come si diceva, sempre troppo concessivo, non consente che su di lei il braccio forte della legge eserciti questa sanzione brutale. In un passaggio precedente egli ha fatto anche di peggio, la trama ci dice che il dramma impersonato dalla Ramazzotti nasce dal fatto che si è ritrovata con un figlio della colpa in fasce, e che la legge glielo vuole strappare dandolo in adozione. E allora lei decide di compiere un atto estremo, di cui peraltro sono colme le cronache quotidiane, dare a sé e al pargolo la doppia morte, buttandosi in acqua da un ponte. Contro ogni verosimiglianza il regista decide di salvarli, anche se evidentemente ciò implica gli esiti che abbiamo già conosciuto in anticipo, la giovane madre, giudicata incapace di gestirsi, viene rinchiusa in una struttura assistenziale coatta, e il bambino viene affidato a una brava famigliola che lo accoglie nelle giuste maniere. Qui ancora una volta si ha lo sfioramento di una pellicola memorabile, il “Sugarland express”, capolavoro giovanile di Steven Spielberg, ma sempre col limite della mancanza di coraggio del regista italiano. Là, la coppia che procede trepida a tentare di riprendersi il figlio sottratto, viene attesa la varco, e lui freddato dalla polizia. Qui invece alla povera madre è concesso, dal buonismo che si trasmette per li rami dal regista ai suoi personaggi, di rivedere il bambino ormai cresciuto, ed ecco ancora una terza soluzione mancata, che questa volta ci porta a un altro asso dello schermo, a Marco Ferreri e al suo “Chiedo asilo”, che termina con un magnifico Benigni, quando era lontano dall’esibirsi nelle stucchevoli lodi alla “più bella costituzione”, mentre in quel caso si avviava risoluto ad annegarsi in mare dando la mano a un povero bambino handicappato. Qui invece la madre si accontenta di poco, di un bagnetto col figlio, poi rientra a recitare il duetto con l’altra sbandata che la attende trepidante, compagna di camera e di frizzi e lazzi, tanto per rallegrare la piccola comunità di emarginate come loro.

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