Ho passato queste vacanze natalizie rivedendo alcune pellicole a suo tempo famose e “popolari”, che però non hanno superato la prova inducendomi in poco tempo a lasciar perdere, tranne una, “Via col vento”, che invece mi si è confermata come un incredibile capolavoro, considerato il tempo precoce, il 1939, in cui è stata prodotta, davvero memorabile prova di maturità del cinema hollywoodiano. E pensare che quando il film era apparso sui nostri schermi, nel primo dopoguerra, da giovane intellettuale cocciuto, pieno di disprezzo per i gusti popolari, mi ero perfino rifiutato di andare a vederlo. Poi, molto più avanti, avevo iniziato a rintracciarvi i molti aspetti positivi, che mi si sono confermati in questa visione recente. In ordine di importanza, il primo aspetto a imporsi è la recitazione maiuscola di Vivien Leigh, uno dei personaggi più vivi, costanti, pur nei salti d’umore e nel rapido adattamento alle circostanze mutevoli, che siano mai apparsi nell’intera cinematografia mondiale. Accanto a lei, un Clark Gable, però condannato a un ruolo più fisso, a far prova di un cinismo di superficie, a mascherare una generosità di fondo, coperto però da una sorta di maschera fissa, da un ghigno persistente. Confesso che non si sono preoccupato per niente di condurre un qualche riscontro sul testo di origine steso da Margaret Mitchell, ma si sa, un film, e mai come in questo caso, è un’opera di insieme, inutile risalire al soggetto di partenza. Che oltretutto non si adatta certo alle mie convinzioni predominanti. Si sa che sono un esaltatore dell’etica del “contemporaneo” avversa al primato della “roba”, del tornaconto economico. Per questa ragione ho lodato molto il capolavoro di Jane Austen, “Orgoglio e pregiudizio”, proprio perché entrambi i protagonisti si rivelano superiori alle leggi della tribù e si raggiungono all’insegna di un universo più generoso, più “aperto”. Il che non si può dire per la nostra Rossella O’Hara, attaccata quanto mai alla “roba”, fino al fanatismo, o diciamo pure fino a una totalità di pregiudizi, con relativo orgoglio, che però, rispetto al premere di questi sentimenti, a differenza dell’eroina della Austen, non cede, non demorde. Questa sua brama di dominio si estende alla sfera dei sentimenti, portandola a una serie di matrimoni per pure ragioni di orgoglio. Forse l’unico motivo di riscatto per lei potrebbe essere l’amore costante per Ashley Wikes, interpretato da un eccellente Leslie Howard, che ancora una volta si adatta all’universo ottocentesco in cui, accanto ai “vincitori”, a coloro che affrontano senza esitazione lo “struggle for life”, ci sono i deboli, i vinti, i soccombenti, cui Ashley appartiene per natura, assieme del resto alla moglie Melania, una ottima pure lei Olivia de Havilland. Proprio nel rispetto dell’epica alla Zola, alla Verga, le colonie del Sud appaiono subito condannate in partenza, proprio per la nobiltà ma impotente del loro sentire, per i conati di rivolta contro il più forte Nord, più al passo con le leggi dell’economia che si stanno imponendo. Ma Rossella non è certo una ideologa, è una combattente nella difesa della terra, nella fattispecie della fattoria di famiglia, Tara, quasi come un ET dei nostri giorni che ripeta tra se stesso “casa, casa”. Accanto alla precisione psicologica dei protagonisti, il film si vale di una sapiente ricostruzione dei fatti, quando Rossella si trasferisce ad Atlanta, dove affluiscono le truppe sbaragliate del Sud. La scena dei feriti malamente accampati all’aperto è una delle più forti di tutti i tempi, il regjsta Victor Fleming ha saputo anticipare i disastri della guerra, anche se questi non avrebbero colpito il territorio statunitense. Ma il modo di rendere la disfatta delle povere truppe del Sud è superbo, degno del miglior Zola della “Débacle”, e fa sparire al confronto le mosse sbagliate, inverosimili di un preteso “colosso” recente come “Dunkirk”. Ma anche una pur abile ricostruzione cinematografica della cruciale battaglia di Gettysburg, decisiva per le sorti della Guerra di Secessione, manca di spirito sintetico, si fa una fatica tremenda a capire chi in essa vince e chi perde. Qui invece, attraverso gli echi delle retrovie, gli incendi, le esplosioni da cui è travolta Atlanta, tutto è chiaro, perspicuo, è un manuale per capire che cosa diventa una città di rincalzo, quando subisce l’onda d’urto degli sconfitti. Inutile poi celebrare, lo hanno già fatto in molti, l’impresa epica di Rossella, mossa da un impeto irresistibile a tornare a casa, portandosi il neonato di Melania, per trovarvi solo macerie, ma subito erigendosi in difesa delle sorti della famiglia scese ai più bassi livelli, impugnando una pistola per scacciare un saccheggiatore e forse anche violentatore potenziale, pronta pure a estirpare dalla terra qualche tubero per alimentare il padre ammalato e le sorelle. E’ anche tremendamente veritiero il quadro che potremmo dire del “vae victis”, nessuno ci ha esposto con tanta veridicità la persecuzione che i vincitori nordisti hanno inflitto agli sconfitti Sudisti taglieggiandoli. Poi c’è il processo di risalita, nel cui none Rossella non esita a fare matrimoni di convenienza, rubando promessi sposi alle sorelle, tutto pur di riacquistare la “roba”, tutto purché Tara sia salva. E in fondo è giusto che il troppo abile Gable-Butler sia costretto a una lunga anticamera, prima che giunga il suo turno. Magari sì, c’è qualche caduta nel sentimentalismo quando avviene la morte della loro figlia, vittima dei troppi favori di cui hanno voluto circondarla. Ma in definitiva meglio così, il film ha un ultimo guizzo di orgoglio nel respingere lo happy end, e nel pronunciare quella formula di incerta ma aperta fiducia nel giorno che verrà.