E’ certamente lecito nutrire dubbi quando un personaggio distintosi in alcuni settori di attività, come per esempio la politica, avanzi titoli per meritare consenso anche in ambito di narrativa. Ma basterà andare a vedere se c’è della stoffa autentica, in quella pretesa, oppure no. Mi è capitato già almeno tre volte di darla buona nel caso di Walter Veltroni narratore, riconoscendo che in lui esiste un mondo autentico, pronto a riaffacciarsi da una prova all’altra, e oltretutto sorretto da una buona armatura, che poi in termini di romanzo corrisponde alla capacità di inserire nell’opera una valida trama. Di cui invece danno segni di carenza tanti narratori dei nostri giorni, tra i più patentati e anche capaci di riportare prestigiosi premi letterari. Mi è capitato di lamentare proprio su queste pagine il fatto che ora, come pugili in difficoltà che si attaccano al corpo a corpo con gli avversari, molti narratori di casa nostra praticano in eccesso o il “giallo”, o l’autonarrazione. Invece Walter Veltroni possiede una valida ricetta, di stabilire collegamenti a distanza, ricorrendo a colpi di bacchetta magica che però ha il merito di presentare con una buona aria di verosimiglianza. Penso a “La scoperta dell’alba”, dove la soluzione magica sta nel riuscire a collegarsi, per via di telefono, a distanza di tanti anni, con un se stesso della prima adolescenza. Per questa via si solca il tempo trascorso, si attraversano periodi ormai accantonati, in una specie di stratigrafia. Come se la vita e la storia fossero dei pasticci di carne, dei polpettoni da cui prelevare delle trance a diversi livelli di profondità. Col che ritroviamo un’altra delle imprese più consistenti del Veltroni narratore, il “Noi” del 2009, dove quel plurale di prima persona è proprio il cognome di una famiglia di lunga percorrenza, i cui drammi, stati d’animo, composizione anagrafica vengono saggiati proprio conducendo dei sondaggi periodici sul filo dei decenni, quasi con ricorso a una specie di TAC a fette. Poi, in merito a un dialogo con un padre scomparso, c’è stato pure il “Ciao”, penultimo nato, dove la telefonata rivelatrice, o il sondaggio, l’ecografia va a sondare i movimenti, le aspirazioni, i timori e speranze di un padre anche in questo caso troppo presto scomparso. Questi vari validi ingredienti ritornano ora in “Quando”, dove la soluzione della telefonata che supera il muro degli anni è sostituita da un fenomeno sicuramente di malcerta credibilità, ma si sa bene che la poesia è il regno non del vero bensì del verosimile. Questa volta il protagonista, Giovanni, nel lontano 1984, mentre partecipa a Roma, piazza San Giovanni, a una dimostrazione politica in morte di Berlinguer vene colpito dalla caduta accidentale di uno striscione, il che lo getta in un coma profondo, ritenuto irreversibile. Ma ecco il miracolo, che è poi un efficace espediente narratologico, di far risvegliare il sempreverde riportandolo ai nostri giorni. Come già in “Noi” o in “Ciao”, siamo a una ingegnosa navigazione tra due strati, poco alla volta il risvegliato ricostruisce lo strato di partenza, anni dello scorso fine-secolo, allietato dalla vicinanza dei genitori e di una bella ragazza conquistata sul campo dell’amore. Poi, vuoto, buio, come nella notte più cupa o nel vaneggiamento onirico più inconcludente, fino all’inopinata uscita dal coma, in cui nessuno sperava più, con la difficile opera di rieducazione del risorto allo strato in cui giacciono tutte le acquisizioni dei nostri tempi, telefonini, moneta unica, carta geopolitica interamente mutata, situazione partitica anch’essa radicalmente cambiata. Il racconto ha la possibilità di alimentarsi a ritmo alterno frugando tra passato e presente. Il rinato alla vita è simile a un Robinson Crusoe di nuovo conio, anzi, a un Venerdì che occorre rieducare con pazienza insegnandogli daccapo come si vive al giorno d’oggi, con i vari ritrovati che sono stupefacenti per chi si è fermato a un trentennio fa. Purtroppo il tempo non è trascorso invano, il padre è deceduto, la madre, rimbambita forse anche a causa del dolore patito per la perdita del figlio, giace ebete in un ospizio, l’amata Flavia, da brava ragazza qual era, è andata a trovare il promesso sposo entrato nella notte finché ha potuto, ma poi si è sentita autorizzata a costituirsi una nuova famiglia, però dalla breve unione con Giovanni è nata una figlia. Perfetto e sicuro nel gioco di rimbalzo tra passato e presente, il narratore ha qualche incertezza nel riabilitare il resuscitato a una vita normale. Come comportarsi con la figlia naturale, farsi riconoscere o lasciarla convinta di essere stata generata dall’attuale compagno della madre? E come la mettiamo sul piano dei sentimenti, ricucire con Flavia, o essere riconoscente verso la dottoressa che ha presieduto a questo suo supplemento di esistenza, fino a stabilire una relazione con lei? E come pagare il grosso debito verso una suora che giorno per giorno lo ha assistito, forse con qualche ricordo di una vicenda analoga, ma girata al maschile, presente nel capolavoro di Almodovar, “Habla con ella”? I dubbi, le incertezze di Giovanni sono condivisi dall’autore, che non sa bene quale soluzione adottare, si tiene le varie carte nella manica, quasi chiedendo a noi lettori di decidere. Ma c’è stata la valida forza e pertinenza di quel continuo giocare tra due livelli, al di qua e al di là dei tempi.
Walter Veltroni, Quando. Rizzoli, pp. 217, euro 19.