Letteratura

Veladiano: una storia tutt’altro che perfetta

Ho dichiarato più volte il mio apprezzamento nei confronti del Premio Calvino, per la sua formula a netto favore di voci nuove della nostra narrativa, il che ha consentito di lanciare molti autori cui poi non ho mancato di rivolgere un giudizio positivo, soprattutto con “pollici recti” a loro dedicati nella rubrica che tengo presso la rivista “L’immaginazione”. L’elenco è abbastanza lungo: Greco, Gazzaniga, Marino, con un Maino di cui sono riuscito a parlare su “Tuttolibri”, prima di esserne rottamato, in un modo che “ancor m’offende”. Inoltre si è costituita una proficua collaborazione tra me, in riferimento a “RicercaBO”, e Mario Ugo Marchetti, a lungo alla testa di una agguerrita schiera di lettori delle opere ricevute, e ora salito al massimo incarico di Presidente di quel Premio. Purtroppo però questa vigile e positiva attenzione non ho potuto indirizzarla a chi invece da quel Premio è stato messo in orbita, alludo a Mariapia Veladiano, vincitrice dell’edizione 2011, verso la cui “Vita accanto” ho rivolto un cattivo “pollice verso”, poi reiterato all’apparizione di un secondo romanzo, “Il tempo è un Dio breve”, e ora sono di nuovo a esprimere un giudizio molto limitativo per l’ultimo prodotto, “Una storia quasi perfetta”, tanto che mi si potrebbe accusare di un accanimento terapeutico ai danni di questa scrittrice. Ma che cosa le rimprovero? Di evocare uno sfondo di vecchia provincia, quasi all’insegna di un Fogazzaro sbiadito, o di un Piovene anch’esso “ronronnante”, con al centro di tutto una Verona di ville ombrose e cadenti, dietro le cui mura si consumano incesti, amori più o meno leciti, malattie perniciose, ma sempre all’insegna di una decadenza molle e umbratile. Certo, è giusto che la narrativa di oggi, accantonati gli sperimentalismi più audaci, vada a rivangare nelle ricette del realismo, ma purché lo sappia rinnovare con l’armamentario che oggi conviene, cioè attenzione ai fenomeni di psicopatologia, alla corrispondenza delle malattie dello spirito con quelle del corpo. Invece la Veladiano corre sempre il rischio di svicolare, di rifugiarsi nel non detto, in un misticismo inteso proprio come un giardino protetto, tanto per non assumere rischi espliciti. In questo senso l’ultimo nato, questa “Storia quasi perfetta”, conferma e anzi accresce i limiti, risultando in definitiva la prova più scolorita, esitante, irrisolta. Il “quasi” che campeggia nel titolo rende l’idea alla perfezione, di esiti che si profilano all’orizzonte, ma poi scompaiono nel nulla.
In definitiva c’è qualche abilità di partenza nella Nostra, quando ci propone un Veneto di provincia, sospeso tra qualche aspetto avanzato e invece vecchie vicende familiari che si consumano in segrete stanze. Siamo subito introdotti in un’agenzia che in definitiva risponde bene ai parametri di una adeguazione ai tempi che corrono. Vi regna una vivace figura di Don Giovanni appunto in panni moderni, avvolto in una fama di “sciupafemmine”, confermata dallo stuolo di collaboratrice che lo circondano e che, come in un harem dei nostri giorni, attendono che il principale faccia cadere ai loro piedi il fazzoletto del capriccio momentaneo. In questo salotto delineato secondo le buone regole di un neorealismo dei nostri giorni si introduce una creatura d’incanto, emergente proprio da quel fondo di remota provincia, con i suoi segreti. Si tratta di Bianca, nome che sembra proprio indicarne una purezza spirituale, eccessiva, fuori tempo, anche se le è vicino un ragazzino, Gabriele, figlio della colpa. Bianca è tale in tutti i sensi, anche per la sua quasi celestiale capacità di stendere bozzetti che sono meravigliosi, e che potrebbero diventare un motivo di successo di quell’azienda. E dunque il capo si appresta a unire le sue varie doti, intuisce le possibilità insite nella splendida disegnatrice, e nello stesso tempo coglie a volo pure la possibilità di fare di lei una nuova conquista, una in più da aggiungere al suo già ricco albo d’oro, mentre le dipendenti assistono a quel gioco di cui conoscono già le varie mosse, scommettendo tra loro sulla tenuta, escludendo quasi per principio che quella relazione possa sfociare in un esito positivo, Prima o poi il gallo del pollaio si stancherà della pollastrella e l’abbandonerà. Il guaio è che entrambi i partner sono ugualmente convinti dell’ineluttabilità di una conclusione così banale e scontentata, eppure si illudono, o prima ancora è addirittura la scrittrice a illudersi di poterne saltare fuori. Mentre il capo conduce la sua abile seduzione, si chiede con se stesso se per caso questa volta fa sul serio o se si limita a seguire un copione prevedibile. E anche Bianca si pone il quesito a ogni passo, se quello sarò vero amore oppure no, malgrado gli incontri, le cene deliziose, le evasioni a Venezia, città a lei tanto cara. Purtroppo, come detto, la Veladiano non sa come saltar fuori da questo stanco convoglio che, niente da fare, procede verso la conclusione prevedibile, viene il tempo in cui l’abile seduttore decide che ormai deve girare la chiavetta, farsi da parte. Ci vorrebbe un qualche dramma, una qualche catastrofe a porre un punto fermo alla vicenda, ma la Nostra è esitante. Per un momento speriamo che la rottura possa venire dal ragazzino, Gabriele, che non ha mai esitato a ostacolare il subdolo invasore della pace domestica, spereremmo quasi in un gesto forte che gli venga affidato, come quello di uccidersi. Invece no, egli scompare per qualche giorno, ma poi riappare incolume, E Bianca, forse lei ha il coraggio di uccidersi, al modo di altre vittime del seduttore aziendale? Neanche questo avviene, la vicenda sfuma, si allontana da noi, vaga e inconcludente.
Mariapia Veladiano, Una storia quasi perfetta. Guanda, pp. 237, euro 17.50.

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