Letteratura

Uno “spasimo” esuberante di santa Rosaria Lo Russo

Anche questa volta parlo di fatti riguardanti la poesia, prima che nuove uscite in materia di narrativa mi permettano di ritornare a temi per me più soliti. L’occasione me la dà Rosaria Lo Russo, che ha diffuso in rete un suo poemetto orale il cui titolo, “Spasimo”, vale già come una dichiarazione di poetica. Con lei si chiude un triangolo che tocca le principali vie concesse oggi a questo genere letterario. Cesare Viviani aveva rappresentato a suo tempo la via più ardita che ho definito, più di un trentennio fa, come ricerca “intraverbale”, ovvero il rinunciare ai lessemi del vocabolario procedendo a una loro frantumazione e ricomposizione arbitraria. A dire il vero, Viviani ha fatto un passo indietro da tanto ardimento rientrando nell’uso di un lessico ordinario, ma “tagliandone” le varie sequenze, come si “taglia” una droga per renderla più efficace. Marco Giovenale porta agli estremi una poesia in fuga da se stessa, che si appropria della rivale, la prosa, con il suo scorrimento comunicativo, ma poi le applica strappi, cesure, che sono gli strumenti usualmente a disposizione del messaggio poetico e che lo distinguono da quello prosastico. Rosaria Lo Russo è un fiume in piena, mi è capitato di paragonarla a uno tsunami, e la similitudine vale abbastanza fedelmente, in quanto quel cataclisma naturale non sta certo a selezionare quanto colpisce con la sua furia, si trascina dietro i materiali anche più consueti e tradizionali. Così è di questo poemetto della Nostra, che si presenta con un’aria tradizionale, quasi prendendo sul serio un nome come Rosaria, legato al folclore, ai riti e superstizioni di un Meridione atavico. Infatti l’autrice si mette nei panni di una santa di altre stagioni, di uno Jacopone da Todi al femminile, pronunciando beatitudini o maledizioni alterne, appunto da santa, o da prefica, o da strega condannata al rogo. Il lessico è costellato di invocazioni a una “fragile madre”, a una “bambina in fiamme”, a un “Cristo d’argento”, e beninteso, come succedeva alle sante in crisi di misticismo, le espressioni più sublimate si mescolano agli appelli più cupi e lutulenti ai valori bassi del corpo. Insomma, ne viene un florilegio che sembra saltar fuori da un repertorio del buon mondo antico, anche se inframmezzato da profanazioni opportune che portano a paragonare questa ardente proclamatrice a “una cagna sullo stuoino acciambellata”. Ma quello che conta in primo luogo, è che queste frasi, da non valutare in base al vecchio codice della scrittura, sono urlate, gridate, soffiate da una “spasimante” prestazione orale, con l’aiuto del mezzo elettronico, la grande innovazione tecnologica che riporta la poesia o la letteratura in genere ai suoi primordi, ricordandoci che si tratta di una manifestazione prima di tutto orale, mentre solo in un secondo tempo sono subentrate le trascrizioni cartacee. Con la conseguenza che un esercizio poetico come questo, restituito alla sua più vera natura, non teme più le restrizioni editoriali, non attende una improbabile stampa tipografica, si affida brillantemente alla rete, fra l’altro scavalcando i limiti esosi del diritto d’autore. Di queste ballate a un tempo sacre e maledette, Rosaria fa dono gratuito, ne inonda la rete, ne consente un accesso universale.
Il tutto merita una ulteriore riflessione, che corrisponde anch’essa a un tasto su cui ormai batto usualmente. Siamo in presenza di una nuova classificazione delle arti e dei generi, ormai ci sono solo i generi lunghi, della narrativa e simili, per i quali l’approdo nel libro, o nella pellicola cinematografica, sembra ancora preferibile. E ci sono i generi brevi, performativi, in cui spariscono le differenze tra il visivo, il letterario, il sonoro, tutti ormai pronti a confluire nella registrazione elettronica indivisa, come risulta da questa straordinaria prestazione.

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