Attualità

Una sontuosa manifestazione del “triangolo” di Joseph Kosuth

Avevo già annunciato, parlando di Cesare Viel nel blog di domenica scorsa 3 novembre, che avrei approfittato della presenza in contemporanea di una mostra di Jseph Kosuth, nella Galleria di Lia Rumma, un vero e proprio miracolo, uno spazio che gareggia con le istituzioni pubbliche e tiene a contratto un gran numero di maestri di oggi, quasi sfidando le équipes più affollate dei nostri tempi, quali si riscontrano presso un Gagosian o un Perrotin. Tra tante presenze di valore, appunto, c’è pure il maestoso, ieratico Kosuth, cui si deve l’introduzione della scrittura tra i mezzi canonici di fare arte, accantonando, come insegnava la rivoluzione del ’68, l’usurato strumento del pennello e della pittura. La scrittura, fin dalle avanguardie storiche, era stata presente nella prassi artistica, ma come un modo di gettare un pittoresco disordine nella stanza ben ordinata dei caratteri tipografici. Kosuth invece la prendeva nei modi più conformi, desunti dalle pagine a stampa, per farne un uso tipicamente “concettuale”, ovvero per agire sulla nostra mente, mettendo tra parentesi l’aspetto materiale della grafia, il “significante”, a tutto vantaggio del “significato”, chiamato a far funzionare quasi allo stato puro le nostre “cellule grigie”. E questo uso insolito del materiale verbale era da lui prontamente associato ad altre due vie, così da costituire un rigoroso “triangolo”, che stavano nell’appendere alla parete l’oggetto stesso, oppure una sua foto, anche in questo caso ben attenta a non introdurre disturbanti caratteri sensuosi. Rispetto a queste tre vie canoniche, gli eredi come Viel, cioè i post-concettuali, si sono sentiti indotti a “riscaldare” il clima, ovvero a introdurre un po’ di aspetti più sensuosi, per esempio ricorrendo a scritture manuali, e soprattutto a sfondi cromatici, proprio per umanizzare, rendere più accattivante la maestosità che invece Kosuth ha continuato a imporre alle sue manifestazioni. In sostanza, egli si è limitato a introdurre un unico mutamento, affidando la scrittura alla luminosità opalescente e sfavillante del neon, come nelle insegne pubblicitarie, spiccanti su sfondi rigorosamente neri. Ma per carità, nessuna concessione a uno spirito Pop, alla volgarità delle insegne pubblicitarie. Infatti le frasi, magari sempre più lunghe e complesse, sono affidate a caratteri anch’essi solenni, sacralizzati. Per un verso è l’accoglimento della svolta impressa ai neon da Bruce Nauman, ma assolutamente lontana dal voler rendere conto di dati somatici, esistenziali. Il che sembra costituire una contraddizione, rispetto al titolo stesso di questa mostra in cui si invoca un “Existentioal Time”, ma ancora una volta risulta che il Signore impassibile di questo regno si rifugia nella impersonalità, andando a cercare queste testimonianze di specie esistenziale presso i grandi scrittori della storia, in una lista impressionante che va da Nietzsche a Joyce alla Stein. Si entra cioè in una sacra cripta, in un memoriale eretto per celebrare le più preziose testimonianze del genere umano. Una trasformazione analoga va a colpire gli altri due aspetti del sacro triangolo kosuthiano, che troviamo al primo e al secondo piano della Galleria. Il ricorso alla foto non riguarda più, come in origine, una banale sedia, o un orologio dozzinale, bensì un serpente sacro, acciambellato su se stesso, a evidenziare il mitico schema dell’Ouroboros, “dove è il mio principio c’è pure la mia fine”, avrebbe sentenziato Eliot (anche se in questo caso il riferimento va a Nabokov). E pure gli oggetti, convocati secondo il registro del ready made, del tale e quale, non sono a loro volta desunti da una quotidianità frusta e logora, bensì dai musei dove si conservano gli oggetti appartenuti a tanti eroi del nostro tempo, da Einstein a Duchamp a Virginia Woolf. Il tutto è immerso in gelido algore, in una sorta di freezer, come si conviene per consentire la custodia delle memorie, che non si corrompano, come è nell’intento del nostro artista. Va da sé che, viceversa, per distanziarsi, per trovare uno spazio autonomo di manovra, Viel, assieme ai suoi compagni di generazione, avverte la necessità di “riscaldare”, di riavvicinare alla vita di tutti i giorni quella olimpica e asettica virtuosità.
Joseph Kosuth, “Existential Time”. Milano, Galleria Lia Rumma.

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