Più che nella visita ai musei deputati, il rito di un breve soggiorno nella Grande Mela, per gli amanti dell’arte, si deve consumare recandosi nel blocco di strade di Chelsea, grosso moto dalla 20ma alla 25ma street, e nel tratto terminale quasi affacciato sullo Hudson River. Si può mettere piede in decine di gallerie, fuori da una dentro all’altra, con la scoperta di tanti artisti vecchi e nuovi. Nella settimana scorsa di cui ho già detto ho iniziato questo sacro percorso alla 22ma, presso la Galleria DC Moore, che ospita, non in mostra ma nel retro, un’opera di una mia vecchia amicizia, Bob Kushner, il numero uno del Pattern Painting tanto caro a Holly Solomon, e pure uno dei pochi eventi che gli USA hanno potuto contrapporre al “richiamo all’ordine” che nei medesimi anni ’70 ha contrassegnato, in misura più significativa, il nostro Vecchio Continente. A riscoprire le immagini clorofilliane, i felici erbari di Kushner è stata oltretutto un’amica di quei tempi, Anna Canepa, allora prezioso trait-d’union tra noi, intendo anche Alinovi e Daolio, e la cara Holly, convincendomi anche a inserire Bob nelle performances di quella primissima Internazionale del ’77, ora ritornata in edizione facsimile. Quante memorie, e quanta voglia di rilanciare quelle vecchie imprese| Naturalmente nessuna visita è singola, in quel mare magnum. E infatti, lì accanto, ecco Matthews Marks, che presenta il freddo e compassato artista inglese Gary Hume, visto anche in una Biennale di Venezia a dominare il suo padiglione. Ma ci sono pure una serie di “disegnini” carichi di umore e di invenzione realizzati da Nayland Blake, che fu ospite d’onore nei miei “Anninovanta”, nell’ormai lontano 1991. Magari, da Lehmann Maupin, ci sta pure una scappellata di tutto rispetto alla coppia Gilbert & George, che continuano ad amministrare con eleganza e decoro una fase post-comportamentale, mascherando le loro sagome dietro barbe gigantesche, intrecciate come pesanti velli d’oro, come fastose tappezzerie.
Da quella street abbastanza centrale si può decidere di fare marcia indietro o in avanti. Retrocedendo sulla 21ma, incontriamo da Barbara Gladstone una delle imprese più significative e audaci, dovute a un artista a noi ben noto, lo svizzero Thomas Hirschorn, votato all’eccesso, come ha dimostrato, in una Biennale di qualche anno fa, stipando il padiglione del suo Paese di ogni specie di trash, fino all’inverosimile. Ora in definitiva cerca di uscire da tanto ingolfamento con una misura singolare, ovvero trasferisce quei materiali su una piattaforma informatica, traducendoli in una ridda di pixel, ma poi applicando ad alcuni di loro un ingrandimento che ne fa come delle mattonelle. Applica cioè un procedimento di “de-pixelation”, che ridà fiato, distensione, allentamento, a quel “tutto pieno” altrimenti fin troppo ingolfato. Paula Cooper ci presenta Cecil Brown che al momento non nutre affatto preoccupazioni del genere, anzi si dedica a coltivare proprio un “tutto pieno” degno della vecchia stagione dell’Espressionismo astratto, avvertendolo come l’obbligo di redigere un diario incalzante, parossistico: “A Day! Help! Help! Another Day!”.
Da lì si può avanzare sulla 24ma (la 23 mi risulta sterile), dove Luhring Augustine ci offre una visione, se non sbaglio, inedita del nostro Pistoletto, che ritorna alle sue origini, di quando incollava sagome fotografiche su superfici specchianti. Solo che a lungo ci ha abituato ad appendere a quei suoi muri trasparenti poche immagini per volta, qui invece ci prospetta lunghi scaffali oberati di oggetti, quasi a sfida delle sfilate di “buone cose di cattivo gusto” che sono care allo statunitense Haim Steinbach, o ai pallottolieri di medicine elaborati da Damian Hirst. Ma compiamo uno sforzo ancora, fino alla 25ma, dove alla Flag Art Foundation (obbligo di salire fino al nono piano), ritroviamo tutta la magia di Ashley Bickerton, uno dei protagonisti della mostra-rivelazione tenutasi da Ileana Sonnabend nel 1886, con l’apparizione dei “novissimi” di un’intera stagione, i Koons, e Steinbach, e Halley, e il giovanissmo Wim Delvoye, e appunto Bickerton, che allora presentava le sue boe, i suoi gavitelli, cui ancora si attacca, ma rendendoli festosi, addobbati come per una processione sacra. E tra le molte frecce al suo arco c’è pure il ricorso a un iperrealismo minuzioso, esasperato, nel nome di un polistilismo pieno di risorse. Statico, ma nell’eleganza di raffinate soluzioni grafiche, è l’iconismo di Donald Baecler, esposto da Cheim & Read, sempre nella 25ma. Forse non vale la pena andare oltre.