La mostra Arts & Foods che riempie trionfalmente di sé gli ampi spazi della Triennale di Milano risponde ovviamente al filone delle esposizioni di circostanza, in questo caso costituita dall’Expo sorgente a poca distanza, come in altri avrebbe potuto venir stimolato da un Arts & Landcape, & Portrait, & Sill life ecc. Questo non toglie che si debba riconoscere a Germano Celant di averla eseguita in misura perfetta, da quell’eccellente, non critico o storico dell’arte, ma general manager, amministratore delegato della premiata Arte povera spa, insomma da vero e proprio Marchionne della situazione. E devo anche ammettere che di fronte al risultato cessano le polemiche sul grosso finanziamento ricevuto per condurre in porto questa sua prestazione, si vede bene dove siano finiti i soldi, nessuno avrebbe potuto procedere con costi minori. Detto questo, consiglio un visitatore di affidarsi direttamente alla chiara scansione spaziale, distribuita in tre settori dell’enorme spazio, due a pianterreno e uno finale al primo piano. Invece, se si consulta il monumentale catalogo Electa, pur ben condotto, ed efficace se consultato a posteriori, vi si scopre una ridda di settori e articolazioni che, più che rispettare un sano copione di storia dell’arte, sembrano rispondere proprio a un intento da general manager, di associare all’impresa un gran numero di membri eccellenti e rinomati, invitandoli in qualche modo a sparare con lui nel cadavere e a coprirgli le spalle. Sono insomma più gli inclusi che gli esclusi, e questi ultimi, tapini, avranno vita dura a pretendere di sollevare dubbi e perplessità.
Si comincia con un’ampia sezione dedicata al confronto indicato dal tema come lo si può essere esaminare frugando tra la fine dell’Ottocento e gli anni ruggenti del secolo scorso. In questo caso Celant, compreso dell’alto compito assegnatogli, ha assunto i panni di un pensoso antropologo culturale o apostolo della cultura materiale, deciso cioè a dare la precedenza a cucine, utensili, posate, servizi, banconi di bar o ristoranti famosi del tempo, il tutto accompagnato da una rigorosa e sempre efficace documentazione fotografica, nonché da precisi inserti, finalmente, di dipinti d’epoca, dovuti agli artisti “grandi firme”, e questi ci sono tutti, nulla da dire, ma costretti, nell’occasione, a un ruolo ancillare, di complemento, che li costringe a nascondendosi negli angoli riposti, schiacciati dalla massiccia e incombente presenza delle varie testimonianze preponderanti della cultura materiale. Insomma, si tratta di una sezione che meriterebbe di essere trasportata pari pari nell’appena inaugurato, dal Comune ambrosiano, Museo delle culture, MUDEC.
Le cose vanno meglio, lì accanto, quando si passa alla seconda sezione, dedicata al secondo dopoguerra, dove domina una sontuosa documentazione della Pop statunitense, presente al gran completo, con magnifici pezzi dei sacri nomi, Oldenburg, Lichtenstein, Warhol and Company. Inoltre, davanti alla radiosa epifania delle opere d’arte, si restringono i margini concessi a design, furniture, tools ecc, o quanto meno questi si pongono in un giustificato rapporto di sinergia, come è ben noto in quel frangente arte e mass media si nutrono reciprocamente, il che trova qui una documentazione perfetta. Caso mai, appare alquanto in sofferenza un Celant che volesse indossare i panni dello storico dell’arte recente. Perché per esempio sopprimere un giusto riconoscimento al Nouveau Réalisme di Restany, di cui pure ci sono quasi tutti i campioni, compreso il nostro Rotella, e il caso analogo di Manzoni, preferendo porli tutti all’insegna di Fluxus? Forse è stato un modo per far fuori uno scomodo pretendente a un’egemonia critica sugli anni Sessanta, in cui peraltro Germano era appena nato.
Ma certo la sezione migliore e più godibile è quella posta al primo piano e dedicata all’arte più recente, a patto che non si pretenda di verificarla col catalogo alla mano, irto di suddivisioni senza fine, alquanto pretestuose, per es. “Artista come contadino”, “Città buona da mangiare”, “Tutto ciò che vive si nutre”, appunto una ragnatela di sottotitoli fatti più per affidarne la curatela a qualche consociato di valore che per riuscire a rispettarli, tanto è vero che ci sono artisti che saltabeccano da una sezione all’altra. Del resto, niente paura, le opere, in genere ben scelte, si distribuiscono a loro pieno agio nel vasto spazio e parlano da sé. Ovvero, sia ben chiaro, parlano di un generale Art International System, di cui Celant, come detto in apertura, oggi è forse il più autorevole amministratore, che non sbaglia una virgola nelle inserzioni, ci sono tutti gli aventi diritto, e nulla più, secondo un criterio che tra l’altro condanna la partecipazione italiana. Sono in mostra tutti i nostri artisti che un posto, in questa repertorio di vincitori, se lo sono procurati, tutti gli altri possono aspettare. Si conquistino prima un posticino nelle classifiche ufficiali, e se ne potrà riparlare. Qualcuno dica se Celant, dopo la scommessa vincente sull’Arte povera, ha mai scoperto e lanciato un qualche artista italiano che non abbia avuto la ventura di entrare in un repertorio ufficiale, quello che i “curators”, di cui Celant è massimo esponente, si passano dall’uno all’altro, avendo attenta cura di non uscirne fuori.
Arts & Foods, a cura di G. Celant, Milano, Triennale, fino al 31 ottobre, cat. Electa.