Siamo travolti da mostre volte a celebrare i centenari dalla nascita o dalla morte di grandi artisti, e qualche volta ci entrano anche le misure dei mezzi secoli, ma una celebrazione ad annum a mia memoria non si era mai avuta. E’ quanto invece ha osato il Palazzo Reale di Milano concependo una rassegna per onorare l’esatta ricorrenza del 29 settembre 1571, data di nascita di Michelangelo Merisi, a Milano, come attesta un documento inoppugnabile. Ne è venuta però una rassegna inevitabilmente “occasionale”, con una bella serie di indubbi capolavori, e qualche opera minore o addirittura dubbia. Il pubblico gradisce, come attestava venerdì scorso 29, giorno di apertura al pubblico, una lunga coda che ingombrava il cortile interno di Palazzo Reale. E certo la curatrice, Rossella Vodret, si è impegnata al massimo, ma dire che da tutto ciò escano apporti decisivi alla critica caravaggesca ce ne corre. O almeno, nel monumentale catalogo e negli aiuti didattici posti lungo il percorso compaiono dei contributi notevoli, a firma di collaboratori che si chiamano Riccardo Gandolfi, Alessandro Zuccari, Orietta Verdi, da cui viene rilanciata una delle prime biografie dedicate al Merisi, da Gaspare Celio, peraltro già riecheggiata tempo dopo dal ben più ufficiale Bellori. Il “buco” sugli anni milanesi del Merisi sarebbe stato riempito dalle conseguenze di un suo primo omicidio, con conseguente carcerazione, per cui l’artista già allo sbando sarebbe arrivato a Roma solo nel ’94 o ’95. Questa precisazione biografica ha, a mio avviso, il merito di affondare definitivamente la tesi cara a Roberto Longhi di un giovane artista tipicamente “lombardo”, che trascorre i suoi primi anni, quasi adolescenziali, nello studio del Savoldo, del Moretto da Brescia eccetera, cioè di quei “padani” su cui Longhi ha tanto insistito, Difficilmente un simile studio accurato si poteva fare dal chiuso di un carcere. E dunque, resta in campo il solo Pederzano, unica fonte accertata per il Nostro.
Ma quegli esimi studiosi sopra elencati non dedicano neppure una riga, se non sbaglio, ad affrontare il maggiore problema critico ancora sospeso, come spiegare il “primo tempo” caravaggesco, degli anni fine-secolo in cui sviluppa una meravigliosa poetica “chiarista”, o di realismo magico avanti lettera, visibile in tanti celebri dipinti che qui ci vengono risparmiati, forse perché ritenuti fin troppo noti, ma che pure danno forza e consistenza a questa mirabile fase giovanile, si pensi al “Ragazzo con cesto di frutta”, a “I musici”, al “Bacchino malato”. Caratteri dominanti di questo momento stilistico, lo sfondo luminoso, irrorato di luce diffusa, una fattura dei volti che li rende leggermente imbambolati, quasi cerei, percorsi da un sorriso enigmatico. Qui a dire il vero alcuni capolavori di un simile alto momento ci sono, a cominciare dalla prova più indicativa, “La buona ventura”, con quelle due figure scandite da una luce che si incolla alle carni e agli abiti , in una visione ferma, pacata, assoluta. E c’è pure, altro strepitoso capolavoro, la “Maddalena penitente”. Ma quasi a voler sbarrare la via a questa strada inquietante, che pure è il maggior problema ancora in sospeso per tutta la esegesi caravaggesca, la Vodret accoglie i visitatori con una “Giuditta che taglia la testa a Oloferne”, già del 1602, quando cioè i giochi si stanno chiudendo, e il Caravaggio sceglie la via ben nota dei chiaroscuri, del dramma, della tragedia immanente. Ma prima era venuto un altro capolavoro della serie che porta in una diversa direzione, il magnifico “Riposo durante la fuga in Egitto”: carni sode, emananti luce, piuttosto che essere immerse in un letto di tenebre, per il momento scongiurato. E beninteso non si fa cenno da nessuna parte a un altro inquietante interrogativo, relativo alla prima versione delle due tele dipinte per la cappella Cerasi in S. Maria del Popolo, un “San Paolo caduto da cavallo”, riemerso di recente, proprietà Odescalchi, e un “Martirio di S. Pietro”, andato definitivamente disperso. Che cosa ha indotto il Maestro a ritirare quelle due versioni e a sostituirle con le attuali e definitive? Un rifiuto del committente Cerasi, che però pare fosse deceduto molto presto? O, supposizione a mio avviso molto più accettabile, il fatto stesso che il Merisi si fosse accorto della dissonanza del suo stile “prima maniera” con quanto ormai stava adottando, e procedendo a incupire sempre di più, ad avviare a un naufragio in un mare di tenebre, come attestano, anche in questa mostra, i dipinti posteriori alla fuga da Roma per quella che ormai sarebbe da considerare un delitto recidivo, il secondo omicidio del nostro troppo collerico autore? Mi si potrà obiettare che però la presente mostra, se è manchevole sul piano della “mia” fenomenologia degli stili (mi si conceda un omaggio a una disciplina che ho insegnato per un trentennio), abbonda però sul piano filologico, oltre alla meritevole attenzione rivolta ai fatti biografici. Sul retro dei dipinti ci sono dei monitor che ne scandagliano gli stadi di produzione, dai primi abbozzi ai pentimenti, alle stesure successive. Indicazioni senza dubbio preziose, che però non valgono a risolvere dubbi di autenticazione, per opere assolutamente sicure. Ma si può ripetere col Vico che i dati esteriori, il certo della filologia, resta vuoto se non integrato da un giudizio critico, che qui non compare, e dunque la soluzione dell’enigma caravaggesco viene rimandata a una prossima puntata.
Dentro Caravaggio, a cura di Rossella Vodret, Milano, Palazzo Reale, fino al 28 gennaio, cat. Skira.