Anche questa volta mi valgo del diritto, più volte teorizzato e praticato, di parlare di un film quando non ci sia un’opera letteraria su carta a stimolarmi, Nel riposo estivo mi è capitato di rivedere un capolavoro di Nino Manfredi, “Per grazia ricevuta”, del 1971, dove il grande attore comico è stato anche il regista di se stesso. Ritengo Manfredi il nostro comico numero due, appena dopo Alberto Sordi, ma come il collega anche lui in pieno possesso dell’arte di mescolare il comico col tragico, e con la capacità di fornire ritratti profondi della nostra società, superando i limiti della cosiddetta “commedia all’italiana”, o dandone delle prestazioni capaci di riscattarla. Il film di Manfredi si pone a mezza strada nei confronti di opere eccellenti in questo senso fornite da Sordi, quali “Riusciranno i nostri eroi a ritrovare l’amico misteriosamente scomparso in Africa?”, 1968, regia Scola, “Bello, onesto, emigrato Australia ecc:”, del medesimo 1971, regia Zampa, infine, nel 1974, il film assolutamente centrale, di cui lo stesso Sordi assume la regia, “Finché c’è guerra c’è speranza”. Ritornando al film di Manfredi, che in fondo corrisponde all’eccellente autobiografia fornitaci di recente dal grande Almodovar, si parte da un bambinetto di scarsa fortuna, un orfanello tirato su da una zia che gli inculca un paralizzante rispetto della religione, mentre lei stessa si concede larghe scappatelle nascondendo in armadio un qualche amante di turno, della cui presenza il fanciullo ha qualche confusa percezione, il che lo fa già vivere tra due mondi, uno di bassa e volgare realtà e uno di apertura ad eventi arcani. E così in lui si alternano due psicologie, quella della devozione e dell’ossequio a principi comuni, che però coesiste con un temperamento ribelle. Una simile alternanza trova l’esito più aperto nel dilemma se cedere alle attrazioni del sesso, o se invece rifuggirne con orrore e senso di colpa. Il ragazzino ritiene di aver commesso un peccato mortale perché di nascosto gli è capitato di sorprendere i deretani di contadine intente ai lavori del campi, ma si vergogna di confessare questo peccato, pur alla viglia di ricevere la prima comunione. Da qui un contegno tipico di questa situazione dilemmatica, egli respinge l’ostia, ma poi, costretto ad assumerla, si sente in una colpa inespiabile, il che lo induce a punirsi gettandosi da una rupe, Qui scatta la prima “grazia ricevuta”, la superstizione in cui vivono gli abitanti di quel natio borgo selvaggio ritiene che una santa protettrice gli abbia fatto la grazia, e dunque questa prima sezione del film si chiude con una rumorosa processione di ringraziamento. Finalmente compare Manfredi in carne ed ossa, in quella sua duplice natura, ben diversa da quella del suo rivale Sordi, fatta cioè di duplicità contenuta, tra una condotta arrendevole e mansueta e invece una riserva di rifiuto, di opposizione. Cresciuto negli anni, il protagonista, Benedetto Parisi, obbedendo al versante timido e devoto della sua doppia psicologia, va a vivere addirittura in convento, ma poi scatta il versante di irresistibile rivolta, e dunque egli se ne va per le vie del mondo, fino a concepire un amore rigeneratore per una giovane donna, impersonata da Delia Boccardo, ottima nel capire la doppia sorte di quel suo innamorato, sempre sospeso tra il dichiararsi, il tentare di possederla, e invece un ritrarsi, preso da una insuperabile irresolutezza e indecisione esistenziale. In sostanza, Benedetto avrebbe bisogno di avere al suo fianco dei forti mentori, come è proprio il padre della donna amata, interpretato da un bravissimo Lionel Stander, magistrale nel rispondere al ruolo del libertino, dell’ateo convinto, pieno di disprezzo per il legame matrimoniale cui tuttavia in passato ha ceduto, sposando una megera, anche in questo caso ben interpretata da Paola Borboni, che è un concentrato di bigotteria unita a uno spirito borghese di sordido attaccamento ai beni materiali. I due fidanzati giungono fino al punto di recarsi all’altare per sposarsi, ma Benedetto di nuovo ha uno scarto, come un animale recalcitrante, fugge via, non è capace, non si sente degno di assumere un ruolo deciso nella comune esistenza, da qui un secondo impulso al suicidio, e il film si apre proprio quando in un’operazione chirurgica si tenta si salvare l’infelice vittima di se stesso. Ma di nuovo interviene la “grazia”, Benedetto si salva, con disperazione della suocera in pectore, che detesta quel buono a nulla, quel renitente a ogni impegno concreto, mentre viceversa la donna del cuore, degna del padre, frattanto deceduto, lo assiste, gli sta a fianco, e dunque il film si chiude quando il protagonista socchiude gli occhi, ammicca alle lusinghe della vita, con il suo tipico sguardo sospeso, tra accettazione e cauta riserva. Visto che siamo in tema, un’altra magnifica recita di Manfredi si ha nel film in cui Sordi, alias il cognato, cerca di ritrovarlo in Africa, e finalmente lo scopre, inserito in un ruolo incredibile di stregone di una tribù di indigeni. Qui di nuovo il dilemma del protagonista, cedere, rientrare nella vita borghese, o invece accettare fino in fondo quel nuovo destino che lo pone alla testa di una comunità alternativa? Manfredi sa giocare con flessibilità, sottigliezza, maestria un simile ruolo dubbio e perplesso, fino a una scelta del tutto coerente, il rifiuto di rientrare nella nostra cosiddetta società civile.