Arte

Una Grande Madre sfuggente

E’ alquanto misteriosa la ragione che ha portato la Fondazione Trussardi a concepire la mostra attualmente visibile al Palazzo Reale di Milano sulla “Grande Madre”, affidandone la cura a Massimiliano Gioni, che si conferma come il nostro miglior curatore dell’ultima generazione, però vorrei che le sue indubbie qualità non si cimentassero a vuoto, a ordire splendide ma inutili mongolfiere, come non ho mancato di rinfacciare alla sua Biennale di Venezia di due anni fa. Meglio che le sue doti, come è già avvenuto sempre al servizio Trussardi, si dedichino a presentarci, in siti opportuni, certi eccellenti protagonisti dei lavori in corso, come fu una bellissima rassegna dedicata alla coppia svizzera Fischli e Weiss, o all’artista “parlante” Tino Seghal. Speriamo anche che al timone del newyorkese New Museum, ottimamente inseritosi tra le maggiori attrazioni della Grande Mela, Gioni sappia andare a scovare autentici nuovi talenti, magari non lesinando un utile lancio a favore di qualcuno dei nostri poveri giovani, in genere negletti, a cominciare proprio dai curatori di casa. Tornando invece alla pur maestosa rassegna in visione al Palazzo Reale, un punto a suo favore è che non cerchi di legittimarsi con un riferimento a Expo. Vedremo, nel prossimo domenicale, che a questo smunto pretesto si lega perfino un’apparizione, sempre in Palazzo Reale, del nostro pictor maximus, Giotto. Sicché, in definitiva, a trarre una piena giustificazione dalla vicinanza con Expo restano solo gli “Arts and Foods” di Germano Celant, come a suo tempo ho riconosciuto.
La presente rassegna, tutt’al più, potrebbe giustificarsi come un remake, più di un trentennio dopo, della famosa “Altra metà dell’avanguardia” realizzata da Lea Vergine, sempre a Milano, nel 1982, giustamente richiamata in servizio con tutti gli onori in questa occasione. Con la differenza che allora la presenza femminile era davvero minoritaria, anche nel quadro dei movimenti di punta, e dunque, poteva apparire conveniente concedere alle donne artiste un agone separato onde non apparire schiacciate dalla prepotente presenza dei colleghi dell’altro sesso. Oggi quella causa risulta largamente vinta, le artiste sono quasi alla pari, nel numero e nella notorietà, rispetto ai colleghi, e dunque anche per questo verso concedere loro una pista privilegiata non risulta più necessario. Quanto alla maternità, questo, anche in mostra, il più delle volte risulta un valore aggiunto, quasi occasionale. Perfino l’immagine posta nella copertina del catalogo conferma questo tradimento involontario, che però sarebbe da evitare con attenzione. Ho già detto quanto sia apparso improprio che la grande mostra dedicata a Leonardo, sempre in Palazzo Reale, inalberasse un’opera di non sicura attribuzione al maestro di Vinci “La belle Ferronnière”. Qui c’è un ritratto acqua e sapone che l’inglese Gillian Wearing ha dedicato alla madre, ma in questa giovane del tutto anonima la maternità si apprende solo da una didascalia, altrimenti l’apparizione, volutamente grigia e anonima come sono in genere le immagini della Wearing, potrebbe essere di una donna che nella sua intera vita non ha mai sperimentato la maternità, di cui non c’è alcuna traccia evidente. E così via, abbiamo sale o pareti dedicate a donne artiste celebri nella storia, o nell’attualità, e beninteso le si vedono con pieno gradimento. Ecco Benedetta, la geniale moglie del grande Marinetti, e davvero buona madre delle sue figlie, ma questo dato anagrafico per fortuna non trova riscontri diretti nell’ sua opera. Accanto a lei, compare con foto di repertorio la danzatrice Giannina Censi, ma ovviamente le ardite coreografie qui documentate furono rese possibili proprio perché effettuate tenendosi ben lontana dagli incomodi della prole. E così via, avanzano a passo marziale come in una parata tutti i bei nomi dell’olimpo al femminile, oltre che del Futurismo dei successivi Dadaismo e Surrealismo. Qualche volta vengono pure convocati i compagni, mariti, amanti, ma con evidente impaccio, obbligati a toccare il tema affidandolo a industriosi robot, a macchine che, beninteso, si pongono l’obbligo di essere celibi, cioè di negare proprio lo sbocco procreativo. Ma si sa che esiste la teologia negativa, anche chi bestemmia afferma la presenza della divinità, e dunque non ci meraviglieremo che Gioni sfrutti questa arma, per stare nel tema attraverso opere che lo negano. Poi, di citazione in citazione condotta sul filo della storia, si sfocia nel panorama attuale, in cui il nostro curatore si trova a suo completo agio, si ammirano presenze, qualche volta anche molto nutrite, di tutti i nomi di successo che oggi hanno portato ad alti livelli appunto la partecipazione femminile, con delle vere “chicche”, come una antologia di disegni in cui la grande performer Valie Export ha fissato delle scalette o degli abbozzi delle sue successive esecuzioni corporali. Ottime le sale dedicate a Louise Bourgeois, a Annette Messager, o la proiezione nel soffitto di un video di Pipilotti Rist, che però sappiamo bene essere portata a respingere con rigore un possibile sbocco genitale della sessualità. C’è chi, come Linda Benglis, rappresenta nel segno dello humour o della provocazione il fenomeno che è proprio, come vuole la teologia negativa, la negazione della maternità, cioè l’”invidia del pene”. Infatti l’artista statunitense brandisce con orgoglio, o derisione, o manifesta volontà di scandalo, un enorme pene. E tante altre sono le variazioni più o meno centrate sul motivo. Ma se si facesse un referendum forse molte di queste protagoniste respingerebbero con sdegno l’assunto della mostra, rivendicando il diritto della donna di sentirsi affrancata da un legame troppo stretto col parto e l’allattamento e tutte le relative conseguenze.
La Grande Madre, a cura di Massimiliano Gioni, Milano, Palazzo Reale, fino al 15 novembre. Cat. Skira.

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