Le cronache culturali di questi giorni hanno parlato del dipinto attribuito a Gudo Reni, “Danza campestre”, acquistato a un’asta estera dal nostro MIBAC e restituito alla romana Galleria Borghese, cui è dovuto, essendo appartenuto al suo creatore Scipione Borghese. Non sono affatto uno specialista in merito, ma l’attribuzione mi persuade, nonostante che l’immagine dominante del Divino Guido sia legata a dipinti di grandi figure, i più pregiati secondo il punteggio dei mercanti di un tempo. Ma nell’occasione, pur avendo affrontato un tema per così dire di massa, l’artista bolognese lo ha fatto con la sua solita grazia, evitando una noiosa stereotipia, quale invece aduggia la produzione contemporanea dei cosiddetti Bamboccianti. Pur avendo dovuto adottare una scala ridotta per rispettare il tema, il pittore ha conferito una larga autonomia ad ogni figurante della scena, cercando di atteggiarlo con relativa disinvoltura, comunicandogli una pur ridotta dinamica di movimenti, come il mettere di profilo i corpi o le teste, il presentarsi talvolta di schiena. Varrebbe quasi la pena di munirsi di una lente di ingrandimento per ridare a ogni comparsa il rilievo, la libertà di atteggiamenti di cui, benché nel formato ridotto, l’artista è stato capace di dotarla. Chi, se non lui, in quel momento poteva riuscire a tanto? Non il Guercino, le cui giovanili scene pastorali potrebbero avere qualche tratto in comune, ma con qualche grado in più di immersione in un fango realista di scena agreste. Certo, poteva riuscirci Annibale, che del resto è stato il maestro di Guido, col suo “Paesaggio classico”, nell’arte di conferire una presenza monumentale, maestosa al paesaggio che si innalza alle spalle dei festanti, accrescendone il carattere di forbita eleganza. Oppure poteva arrivare a un esito del genere il Domenichino, ma non mi risulta che ci siano da parte sua dei paesaggi equivalenti realizzati “in piccolo”. Insomma, questo del Reni è un dipinto in cui, contro i vari tentativi messi in atto da un secolo in qua di degradare il nostro Divino artefice, di ridurlo a un classicismo stanco e accademico, dimostra invece come lui stesso, sulla scorta di Annibale, e in anticipo sul Domenichino, fosse l’ispiratore della seconda metà del Seicento, soprattutto nei grandiosi esiti che si ebbero in Francia, dal Poussin al Lorrain. Quando cioè l’ondata travolgente del caravaggismo si spense, esaurì la propria carica dinamica, e quei parametri di eleganza, di compostezza, di dignità presero a dominare il “grand siècle” francese, e la sua origine “bolognese”, come conferma, seppure in versione lillipuziana, questo dipinto affascinante.