Confesso di essermi recato a questa Biennale con molti pregiudizi, per il carattere “nepotista” della nomina della direttrice Alemani, moglie di un precedente direttore. Per il pessimo titolo dato all’intero evento, con due parole cui sono allergico, “latte” e “sogni”; per lo sbandieramento di indigeste artiste surrealiste da lasciare dove stanno, la Carrington e Leonor Fini. E in genere, quando la Alemani si ricorda del Surrealismo e ne seleziona dei derivati, la mostra zoppica. Ma invito tutti a recarsi senza indugio alla serie di sale al centro del Padiglione, vi si troverà un trionfo della pittura, con artisti e soprattutto artiste che vanno allo sbaraglio, lancia in resta, esplosione di forme e colori. E’ un po’ difficile riportarne i nomi, date le loro provenienze da tutte le parti del mondo, con conseguenti grafie per noi molto difficili. Provo a elencare: Jana Euler, con i suoi insetti giganteschi, che si riducono anche in formati piccoli ma ugualmente minacciosi, con gole spalancate, digrignanti. Christina Quarles, con feroci smembramento dei corpi. Jade Fatoiutimi, con un tripudio affocato di colori, da ricordare i momenti più intensi dell’Informale. Charline Von Heyl ci dà dei perfetti murali, Jacqueline Humprhies ci offre un minuto, parossistico picchiettio della sua parete, facendo apparire slavati, superati i pur talentosi incastri di una regina di altri tempi come la nostra Carla Accardi. Le presenze italiane sono ridotte di numero, ma vale almeno la pena di menzionare Ambra Castagnetti, con i suoi lacerti muscolari allungati. Jnfatti il pregio di questa imponente parata è di cancellare i confini tra il pittorico condotto sul piano e invece il plastico-scultoreo, in un convincente continuum ricco di tante soluzioni. E’ la sconfitta di quanti predicano che sarebbe arrivata l’ora di fare arte solo col computer. E anche il video, di fronte a questa sollevazione del “fatto a mano”, pare retrocedere, concedere molto meno di quanto avviene di solito in occasioni come questa. Insomma, l’arte, la pittura, la scultura se la passano molto bene, appaiono in ottima forma. Il che poi continua anche all’Arsenale, dove si ripresentano casi vitali, intriganti. Non mi ha convinto molto quella sorta di copri-vivande di Simone Leigh che apre la sfilata alle Corderie. Molto meglio Gabriel Chaile con i suoi giganti, quasi da ricordare le statue dell’isola di Pasqua, con cui rende omaggio ai suoi antenati. Emma Talbot ci concede un vivacissimo murale, pulsante, pieno di di animazione. Igshaan Adams ordisce una delicata trapunta, fine, trasparente, subito contrastata dalla minacciosa, infernale machera tramata da Tau Lewis. E così via, i casi di forte interesse sono numerosi, incessanti, non danno tregua. Basta solo eliminare quelli che risentono troppo di una impronta surrealista, che conferma la sua presente inattualità. Mentre tutti gli altri offrono una corte straordinaria, che promette grandi cose per i nostri anni futuri. Viva il ritorno del colore, del fatto a mano, dell’invenzione plastica, pronta a mettersi in graticola, a darsi fuoco, a proporsi in mille guise.