Confesso di essere stato alquanto perplesso quando il Centro Pecci di Prato ha annunciato la sua chiusura per procedere a lunghi lavori per allargare la propria sede aggiungendovi un corpo adatto a ospitare la collezione raccolta nei lunghi anni della sua esistenza. Erano note le ristrettezze economiche di cui il Centro risentiva per la solita “manina corta” dei finanziatori privati, con la conseguenza che i costi erano tutti a carico del contribuente pubblico, Comune e Regione. E dunque, valeva la pena affrontare nuove spese? E quale consistenza avevano le collezioni acquisite? I lavori sono stati lunghi, come succede sempre nel nostro Paese, e fra l’altro si sono mangiati ben due sui tre anni del contratto di direzione vinto da Fabio Cavallucci, costringendolo per qualche tempo a rimanersene “in panchina”. Però, a cose fatte, devo ammettere che ne valeva la pena, intanto a livello di architettura, dove Maurice Nio, progettista vincitore del relativo concorso, ha potuto dotare il preesistente edificio di Italo Gamberini, nato già vecchio, come ultimo rigurgito del movimento moderno, rigido, spigoloso, di una morbida “ciambella” che lo abbraccia e ne smussa le punte. Magari la soluzione ricalca alquanto quella che Frank Gehry ha applicato all’Art Gallery di Toronto, ma certo così facendo lo spazio utile è raddoppiato, e ora può ospitare una selezione della collezione acquisita negli anni, attraverso varie modalità, donazioni, acquisti, comodati. Qui mi limiterò a rendere il senso di una rapida visita dei giorni scorsi. Giusto il titolo, “Dalla caverna alla luna”, soprattutto per il primo termine, che sbandiera la presenza del capolavoro di Pinot Gallizio, appunto la “Caverna dell’antimateria”, opera-pivot tra gli anni Cinquanta, regno dell’ Informale e tutte le iniziative posteriori volte alla conquista dello spazio. Ospiti d’onore anche Bob Morris, al momento in cui il suo primitivo rigore si flette andando verso l’Anit-form. E poi, le scheggiature di Sol Le Witt, testimonianze dell’appena scomparso Vito Acconci, di Joseph Kosuth, e qualche frutto raro, di quelli che sfuggono alle rassegne troppo ufficiali, come un bellissimo Keith Sonnier, con uso estroso e inventivo del neon, che altrove si irrigidisce un po’ troppo secondo le ricette del Minimalismo. Beninteso la parte del leone la fanno gli Italiani, ma in genere a ragion veduta, anche se si possono lamentare buchi, assenze, cui però la collezione potrà rimediare in futuro. Ci sono Lucio Fontana, Francesco Lo Savio, Fabio Mauri, come padri fondatori del nuovo corso, una giusta attenzione ai Toscani che vi hanno dato contributi sostanziali, come Paolo Scheggi, Giuseppe Chiari, Lamberto Pignotti, Ketty La Rocca, con attenzione pure a nuovi partecipanti, come Remo Salvadori, Fabrizio Corneli, Loris Cecchini. Presenza notevole pure dell’Arte povera, con opere di taglia forte, per esempio un’intera bastionata di fascine di Merz, scandite dall’immancabile serie di Fibonacci, e uno Zorio coi suoi misteriosi alambicchi, di cui non ho mai visto un dispiegamento più maestoso e ingombrante C’è anche un Kounellis drammatico, in cui l’artista, che ci ha lasciato da poco, brandisce dei coltellacci per avventarsi a squarciare muri, superfici. C’è pure un monumentale Enzo Cucchi, che forse non esprime al giusto la componente mistico-visionaria che è in lui, spenta sotto una coltre di un nero luttuoso, quasi che l’artista, in questo caso, avesse voluto reprimere il proprio estro in nome di un rigorismo che non gli conviene. Forse su questo fronte degli anni Settanta e oltre la collezione dovrà arricchirsi di altri contributi, pescandoli sia entro il fronte della stessa Transavanguardia, sia gettando un’occhiata in direzione dei Nuovi-nuovi, almeno a favore dei due alfieri del gruppo, Ontani e Salvo, e poi, perché no, ci vorrebbe anche una qualche presenza degli Anacronisti. Coome detto, c’è qualche vuoto, in un canovaccio a maglie larghe che però appare capace di infittire le schiere, del resto molti nomi tra gli esposti sicuramente mi sono rimasti nella penna, o giacciono ancora nei depositi. Comunque, già così, questa collezione è forse la maggiore che abbiamo in Italia, o quanto meno è da confrontare solo col Castello di Rivoli, mentre le raccolte ufficiali dei musei dello Stato e dei Comuni risulterebbero decisamente inferiori, se misurate col criterio dell’attualità.
Dalla caverna alla luna. Viaggio dentro la collezione del Centro Pecci, a cura di Stefano Pezzato.