Arte

Un Romanticismo di facciata

Nella mia carriera di docente di fenomenologia degli stili ho sempre invitato a diffidare proprio di due “stili” troppo invadenti e indeterminati, quali il Rinascimento e il Romanticismo. Lasciamo perdere al momento il primo di questi, parliamo del secondo a cui è intitolata una mostra corposa alle Gallerie d’Italia, nel pieno centro di Milano, con un’appendice lì vicino, al Poldi Pezzoli, il tutto a cura di Fernando Mazzocca, che da tempo gode di una ufficialità forse per il suo conformismo, per un’adesione a concezioni stereotipate e convenzionali da cui non manco mai di prendere le distanze, rimpiangendo le sue fasi giovanili quando non disprezzava di partecipare con me a rassegne un po’ più originali. Un primo difetto di questa sua nuova impresa è proprio di non affrontare la duplicità dell’ etichetta, infatti i Romanticismi in sostanza sono due, quello che più conta risponde in definitiva a una accezione generica che lo lega al sentimento, all’imporsi di un irrazionale che cominciò a soffiare in Europa già sul finire del ‘700, soprattutto con alcuni eccezionali artisti inglesi, o là accolti, come un numero uno, lo svizzero Fuseli, e soprattutto un allora disprezzato William Blake, che però ha redatto le due immagini più calzanti per “questo” Romanticismo, da un lato un vecchione assiderante da lui denominato Urizen, guardate un po’ che cos’è “your reason”, a sfida della ragione illuminista, considerandola raggelante, mortale, cui si doveva contrappore l’immagine di un baldo giovane pieno di slancio, da lui denominato con due anagrammi, Los e Orc, Sole e Cuore, che costituivano i due principi di base dell’autentica rivolta romantica, pronta a proseguire fino alle rivoluzioni di Freud e di Einstein. Ma da un punto di vista filologico, purtroppo, è vero che “romantico” è quanto riguarda le lingue e letterature romanze, con la loro rivolta tematica alla mitologia classica, e dunque è lecito dire che furono romantici i pittori che ricostruivano scene, episodi, miti medievali, ma purtroppo in modi spesso leccati al limite con l’oleografico, come purtroppo avvenne in Italia, sotto la guida di un artista senza dubbio dotato come Francesco Hayez, ma che mancava della carica travolgente di un Géricault o di un Delacroix. Morale di questa storia, i veri “romantici” sarebbero i due inglesi, Fuseli e Blake, subito affiancati dall’onda travolgente di Turner, o dallo spagnolo Goya, col suo scatenamento del mondo onirico del sottosuolo, e perfino, a leggerli bene, certi neoclassici come David e il nostro Canova, quando anche lui faceva l’”inglese” ispirandosi proprio ai fantasmi di Fuseli e di Blake. Passato quel momento, il Romanticismo da noi fu solo una questione tematica, di soggetti che si ispiravano alle epopee medievali, ma trattandole con mortifera compostezza, con un realismo meticoloso, o appunto oleografico, sulla scia di un Hayez che aveva rinnegato il periodo giovanile trascorso proprio alla scuola di Canova, lasciandolo al collega e rivale De Min che pagò duramente quella sua fedeltà venendo praticamente cancellato. Accanto ad Hayez, sussiste lo stuolo degli stentati, accademici Molteni, Podesti, Lipparini eccetera. Che oltretutto in questa mostra vengono spezzettati in tanti piccoli settori tematici che ne sbriciolano le personalità impedendone una lettura globale. Per cui anche taluni validi, perché periferici, paesaggisti come Bagetti, col suo procedere in modi da primitivo, quasi da “candido”, o Ippolito Caffi, con la sua capacità di stupirci e di superare uno standard normale portandoci ad ammirare un incendio o una nevicata, vengono frantumati in tante apparizioni separate. Lo stesso si dica per il protagonista numero uno della Scuola di Posillipo, Giacinto Gigante, l’unico che tra noi fu capace di gareggiare con Corot, o addirittura con Turner. Mentre i pur interessanti Puristi, con in primis Minardi, e i ritratti tra il surreale e l’espressionista di Tominz vengono lasciati alla sede di complemento, al Poldi Pezzoli, che ha pure il merito di mettere in mostra un medievalista coi fiocchi, capace di ricavare dal passato tutto il possibile fascino, come il Cigola. Il corpo grande delle Gallerie d’Italia risponde davvero a un Paese dei morti, come senza esagerare gli stranieri dell’epoca definivano la nostra cultura artistica, da cui qualche segno di riscatto lo si poteva trovare caso mai nel Piccio, che almeno immergeva le scene oleografiche degli altri in un fare più fluido e stemperato. Tra gli scultori, ci sta bene Bartolini coi suoi candori che già annunciano il riscatto di un verismo capace almeno di lasciar cadere l’immaginario troppo leccato e lezioso di altri, in attesa che quel mondo pigro e inerte venisse scosso dalle sculture baldanzose di Vincenzo Vela, Dovremo aspettare la seconda metà del secolo per assistere al risveglio dell’Italia, con i Macchiaioli e altri, ma per fortuna nessuno avrebbe più parlato di Romanticismo, almeno in questa accezione assolutamente bolsa, priva di cuore e di anima.
Romanticismo, a cura di Fernando Mazzocca. Milano, Gallerie d’Italia e Poldi Pezzoli, fino al 17 marzo. Cat. autoedito.

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