Da un lato mi rallegra il fatto che per la grande mostra dei cinquecento anni dalla morte di Raffaello siano stati chiamati a collaborare sia il Direttore degli Uffizi, Elke Schmidt, da me sempre giudicato il migliore tra i direttori stranieri pescati a suo tempo da Franceschini, sia, e soprattutto, la sua brava collaboratrice al Gabinetto dei disegni Marzia Faietti. Ma mi stupisce, e ritengo balorda, l’idea di esporre Raffaello a testa in giù, partendo cioè dalle ultime prove e risalendo faticosamente verso le prime. Voglio sperare che una trovata così incongrua venga da un collaboratore alla mostra, tale Francesco Di Teodoro, di cui mi sfuggono i titoli di eccellenza per un ruolo del genere. Questo pinco pallino, secondo i miei senza dubbio sprovveduti criteri, però ha osato difendere una simile trovata domenica scorsa sul supplemento del “Sole 24ore”, sostenendo che tale è il metodo per scoprire se un’opera è un falso. Forse, per questo verso, ha ragione lui, è certo un modo per scoprire goffaggini, incertezze di mano, ma, per carità, nella pratica di tutti i critici e intenditori d’arte i dipinti vanno giudicati a testa insù, tanto è vero che un famoso eversore di questa regola elementare, Georg Baselitz, impicca alla rovescio le sue opere proprio a scopo di provocazione, ben consapevole cioè di battere di proposito una via insolita. Speriamo che una procedura così contro natura non si diffonda, alla maniera come, ahimé, ha fatto scuola il vezzo, introdotto dalla Tate Modern di Londra, di accorpare le opere non secondo le tendenze stilistiche bensì affidandosi al criterio estrinseco dei temi. E’ stata un’idea di un “curator” di turno, Vicente Todoli, cui subito si sono aggregati i tanti, non “egregi”, suoi compagni di strada.
Questa decisione di “impiccare” all’ingiù un artista è particolarmente sbagliata per chi, come Raffaello, risulta essere sempre stato “in progress”, autore di mutamenti stilistici continui, tanto che, nelle mie lezioni, mi divertivo a dire che forse, una volta scomparsi certi dati filologici, qualche futuro interprete smarrito avrebbe potuto attribuire ad autori diversi quanto è appartenuto alle sue maniere, in corso di continua modifica, man mano che la sua genialità prensile si impadroniva di soluzioni più avanzate, abbandonando quelle seguite fino al giorno prima. Oppure è come pretendere che un lettore di “gialli” si trovi subito squadernato il colpevole nelle prime pagine. Viceversa, da parte del divino Urbinate, giungere a una piena “maniera moderna”, quali sono senza dubbio, ben documentati in mostra, i capolavori del secondo decennio, i ritratti di Leone X e di Baldassar Castiglione, nonché i celeberrimi volti femminili della Fornarina e della Velata, è stato il frutto di una faticosa marcia ad acquisire impasti morbidi, immersi nell’atmosfera, con un quasi secolo di vantaggio rispetto ai Rubens e Caravaggio e Rembrandt. Fra l’altro, si aggiunge il tratto caratteristico dell’immersione nelle tenebre cosmiche, un accorgimento che il Sanzio aveva appreso da Leonardo, e applicato con convinzione, ma solo a partire dalla sua fase romana. Nei miei azzardi in una materia per me forse impropria ho condannato a piene lettere un sfondone che pure viene ripetuto pari pari da fior di storici e filologhi con le carte in regola. Si prenda un dipinto-ponte come la “Madonna del Granduca”. C’è da giurare che quando Raffaello lo esegue, ancora a Firenze, la figura è su sfondo chiaro, e solo quando egli arriva a Roma capisce che i tempi “moderni” chiedono un totale cambiamento di pedale, e dunque lo sfondo viene tinteggiato con colore scuro.
Questo dannoso sistema di procedere a ritroso condanna soprattutto il “primo” Raffaello, quando è ancora in linea di massima prigioniero dei maestri urbinati, e del Perugino, con sfondi tersi, limpidi, e figure attentamente delineate, ma che già sanno acquisire ritmi di eccezionale eleganza, come avviene nel primissimo “Sogno del cavaliere”, giuntoci da Chantilly, anche se non accompagnato dalle ancor più sinuose, serpentinate “Tre grazie”. E forse ci sarebbe stato bene un maggior numero di Madonne con Bambino, e a fianco un San Giovannino, squisite architetture di braccia, gambette, piedini, a lanciare lacci nello spazio, alla conquista di un movimento che era ancora fermo in una specie di ”surplace”, ma già teso, pieno di energia potenziale pronta a scatenarsi.
Magari ci sta pure la riflessione che per un appuntamento così importante valeva la pena di servirsi di altri spazi, magari di chiedere al Palaexpo di imprestare qualche sua stanza, posponendo la pur magnifica mostra di Jim Dine. O perché non rivolgersi anche a Palazzo Venezia? In fondo, l’aver compresso nelle poche stanze delle Scuderie una sintesi di “tutto” Raffaello, compresi l’architetto, l’estensore di cartoni per enormi arazzi, e soprattutto l’indefesso disegnatore, hanno certo il vantaggio della visione sinottica, ma anche il rischio di diluirla a maglie forse un po’ troppo rade.
Raffaello 1520-1483, a cura di M. Faietti e M. Lanfranconi, con F. P. Di Teodoro, V. Farinella. Roma, Scuderie del Quirinale, fino al 2 giugno. Cat. Skira.