Arte

Un intrigante alfa e omega del Caravaggio

Questa volta il mio solito viaggio del tutto solitario e virtuale mi porta addirittura a New York, Metropolitan Museum, che propone una eccellente idea: concentrare il burrascoso percorso del Caravaggio in un alfa e omega, in un ultimo dipinto, forse dell’anno stesso della morte, il 1610, un “Martirio di S. Orsola” proveniente da Napoli. Palazzo Zavallos Stigliano, lo stesso luogo dove si conserva una copia di un altro dipinto caravaggesco ben più forte e riuscito, una “Giuditta che taglia la testa a Oloferne”, salito di recente agli onori della cronaca perché è emerso dalla Francia profonda il molto probabile originale di quel dipinto, esposto per qualche tempo a Milano, Pinacoteca di Brera. Nell’occasione io mi sono pronunciato, sull’”Unità”, a favore dell’autografia caravaggesca di quell’opera, sulla linea di uno dei massimi conoscitori di quei problemi quale Nicola Spinosa. Negli anni successivi, angosciato dalle sventure personali, il Maestro contraeva ancor più il suo linguaggio, lo invadeva con tenebre sempre più fitte, conferendo degli spasimi da dirsi addirittura pre-espressionisti alle figure maschili, rese ghignanti, simili a mascheroni solcati da rughe profonde. Quasi che, presago di una sua fine ormai prossima, l’artista volesse collocare i suoi dipinti estremi su un rogo distruttivo, ricavarne un’ultima fiammata, invitando i devoti seguaci a chiudere anch’essi quel capitolo. E infatti, poco dopo molti dei suoi allievi, anche tra gli inizialmente più devoti, come il Gentileschi e il Ribera, cominciarono a prendere le distanze, volgendosi magari all’”altro” forno, quello della scuola carraccesca, più moderata, più propensa ad accogliere canonici influssi classicisti. Ma in sostanza, dell’ultimo Caravaggio è facile discutere, quei dipinti catastrofici si lasciano sottrarre le chiavi interpretative con tutta evidenza.
Completamente diverso è il discorso se ci si porta agli inizi, testimoniati da una tela fascinosa come “I suonatori”, presente proprio nelle collezioni del Metropolitan, realizzata negli anni misteriosi a metà dei ’90 quando l’artista milanese si trasferì a Roma, dei quali non molto si sa, né a livello documentario né tanto meno da un punto di vista stilistico. Ha dominato a lungo, in proposito, la tesi di Roberto Longhi, ma corrispondente più che altro a un amore sviscerato dell’illustre storico dell’arte a favore del mito nordico della Lombardia o Padania come terra di forti realismi, sottratti alle bellurie provenienti da Firenze. Ma si tratta di una sorta di “leggenda metropolitana”, tra le più improbabili di quelle uscite dall’officina longhiana. Osservando appunto quella tela giovanile, non vi si colgono tracce dei vari “lombardi” sul tipo dei Savoldo e Moretto da Brescia, o anche di un più sodo e solido Moroni. L’unico retaggio che il Merisi sembra essersi portato dietro dal capoluogo lombardo proviene dal sicuro maestro che vi ebbe, Simone Peterzano, manierista privo di svenevolezze, anzi, coriaceo e capace di indurimenti. Se non mancasse una corrispondenza di anni, si potrebbe ipotizzare che il giovane Merisi gli fosse a fianco negli affreschi da lui realizzati in S. Maurilio, per poi portarsene qualche traccia nella trasferta romana. Ma in sostanza, dove trovare, guardandosi attorno, a Roma e dintorni, quella fattura capace di dare alle carni seminude di giovani, soprattutto a quello ripreso di schiena, tanta consistenza, nello stesso tempo unita a morbidezza? Ai nostri giorni potremmo parlare addirittura di una modellazione intervenuta con materiale plastico, o quanto meno con la cera con cui si ottenevano sorprendenti simulacri “più veri del vero” di organi anatomici. Perfino guardando verso Venezia, nel caso che ci fosse stato davvero un non confermato passaggio dell’artista per la Serenissima, e in particolare verso Giorgione, di nuovo non troveremmo tanta fermezza di forme. Notevole poi anche l’aria di sottile ebbrezza che sorride nei volti di questi efebi, del tutto in carattere coi suoni che stanno ricavando dagli strumenti, di cui peraltro non viene fatto particolare sfoggio, a contrasto con la capacità che si attribuisce al Merisi “prima maniera” di essere stato soprattutto un confezionatore di nature morte. Qui egli ci appare piuttosto un miracoloso compositore di nature vive, soavi, parlanti, soffuse di un’aura leggera, un po’ fatua, un po’ sacralizzante. Viene fatto insomma di parlare di un realismo che occorre andare subito a connotare con l’epiteto di “magico”, tale da caratterizzare tutta quella fase iniziale del Caravaggio romano, capace di estendersi fino alle prime due versioni del martirio rispettivamente di S.Paolo e di S. Pietro stesi per il Cerasi nella cappella da lui voluta in S. Maria del Popolo. E anche qui siamo di fronte a un mistero: che cosa indusse l’artista a ritirare quelle due versioni? Un rifiuto da parte del committente o dei suoi eredi, una sua stessa decisione che lo induceva a sconfessare quell’inizio troppo compiaciuto di sé, e del tutto esente da accenti drammatici, troppo beatamente invaso da una luce che si condensa sui corpi e le cose? Si sa che di recente anche in questa vicenda c’è stato un colpo di scena. È riemersa una prima versione del S. Paolo, di proprietà Odescalchi, ma quanto lontana dalla versione successiva, quanto imbevuta di sacra aura, di magica evidenza. Mentre purtroppo non possiamo fare un riscontro sulla tela gemella, andata perduta, e dunque dobbiamo ammirare un “Martirio di San Pietro”, quello tuttora esistente, in cui l’artista ha già iniziato il suo viaggio graduale di immersione nelle tenebre, anche se non è ancora iniziato il lungo “viaggio al termine della notte” da cui siamo partiti. Insomma, troppa luce, che poi in effetti è buio quasi totale, nel punto d’arrivo, troppa sospensione e stimolante incertezza per l’alba di una navigazione, che dunque ci nasconde ancora tanti segreti.
Questa volta il mio solito viaggio del tutto solitario e virtuale mi porta addirittura a New York, Metropolitan Museum, che propone una eccellente idea: concentrare il burrascoso percorso del Caravaggio in un alfa e omega, in un ultimo dipinto, forse dell’anno stesso della morte, il 1610, un “Martirio di S. Orsola” proveniente da Napoli. Palazzo Zavallos Stigliano, lo stesso luogo dove si conserva una copia di un altro dipinto caravaggesco ben più forte e riuscito, una “Giuditta che taglia la testa a Oloferne”, salito di recente agli onori della cronaca perché è emerso dalla Francia profonda il molto probabile originale di quel dipinto, esposto per qualche tempo a Milano, Pinacoteca di Brera. Nell’occasione io mi sono pronunciato, sull’”Unità”, a favore dell’autografia caravaggesca di quell’opera, sulla linea di uno dei massimi conoscitori di quei problemi quale Nicola Spinosa. Negli anni successivi, angosciato dalle sventure personali, il Maestro contraeva ancor più il suo linguaggio, lo invadeva con tenebre sempre più fitte, conferendo degli spasimi da dirsi addirittura pre-espressionisti alle figure maschili, rese ghignanti, simili a mascheroni solcati da rughe profonde. Quasi che, presago di una sua fine ormai prossima, l’artista volesse collocare i suoi dipinti estremi su un rogo distruttivo, ricavarne un’ultima fiammata, invitando i devoti seguaci a chiudere anch’essi quel capitolo. E infatti, poco dopo molti dei suoi allievi, anche tra gli inizialmente più devoti, come il Gentileschi e il Ribera, cominciarono a prendere le distanze, volgendosi magari all’”altro” forno, quello della scuola carraccesca, più moderata, più propensa ad accogliere canonici influssi classicisti. Ma in sostanza, dell’ultimo Caravaggio è facile discutere, quei dipinti catastrofici si lasciano sottrarre le chiavi interpretative con tutta evidenza.
Completamente diverso è il discorso se ci si porta agli inizi, testimoniati da una tela fascinosa come “I suonatori”, presente proprio nelle collezioni del Metropolitan, realizzata negli anni misteriosi a metà dei ’90 quando l’artista milanese si trasferì a Roma, dei quali non molto si sa, né a livello documentario né tanto meno da un punto di vista stilistico. Ha dominato a lungo, in proposito, la tesi di Roberto Longhi, ma corrispondente più che altro a un amore sviscerato dell’illustre storico dell’arte a favore del mito nordico della Lombardia o Padania come terra di forti realismi, sottratti alle bellurie provenienti da Firenze. Ma si tratta di una sorta di “leggenda metropolitana”, tra le più improbabili di quelle uscite dall’officina longhiana. Osservando appunto quella tela giovanile, non vi si colgono tracce dei vari “lombardi” sul tipo dei Savoldo e Moretto da Brescia, o anche di un più sodo e solido Moroni. L’unico retaggio che il Merisi sembra essersi portato dietro dal capoluogo lombardo proviene dal sicuro maestro che vi ebbe, Simone Peterzano, manierista privo di svenevolezze, anzi, coriaceo e capace di indurimenti. Se non mancasse una corrispondenza di anni, si potrebbe ipotizzare che il giovane Merisi gli fosse a fianco negli affreschi da lui realizzati in S. Maurilio, per poi portarsene qualche traccia nella trasferta romana. Ma in sostanza, dove trovare, guardandosi attorno, a Roma e dintorni, quella fattura capace di dare alle carni seminude di giovani, soprattutto a quello ripreso di schiena, tanta consistenza, nello stesso tempo unita a morbidezza? Ai nostri giorni potremmo parlare addirittura di una modellazione intervenuta con materiale plastico, o quanto meno con la cera con cui si ottenevano sorprendenti simulacri “più veri del vero” di organi anatomici. Perfino guardando verso Venezia, nel caso che ci fosse stato davvero un non confermato passaggio dell’artista per la Serenissima, e in particolare verso Giorgione, di nuovo non troveremmo tanta fermezza di forme. Notevole poi anche l’aria di sottile ebbrezza che sorride nei volti di questi efebi, del tutto in carattere coi suoni che stanno ricavando dagli strumenti, di cui peraltro non viene fatto particolare sfoggio, a contrasto con la capacità che si attribuisce al Merisi “prima maniera” di essere stato soprattutto un confezionatore di nature morte. Qui egli ci appare piuttosto un miracoloso compositore di nature vive, soavi, parlanti, soffuse di un’aura leggera, un po’ fatua, un po’ sacralizzante. Viene fatto insomma di parlare di un realismo che occorre andare subito a connotare con l’epiteto di “magico”, tale da caratterizzare tutta quella fase iniziale del Caravaggio romano, capace di estendersi fino alle prime due versioni del martirio rispettivamente di S.Paolo e di S. Pietro stesi per il Cerasi nella cappella da lui voluta in S. Maria del Popolo. E anche qui siamo di fronte a un mistero: che cosa indusse l’artista a ritirare quelle due versioni? Un rifiuto da parte del committente o dei suoi eredi, una sua stessa decisione che lo induceva a sconfessare quell’inizio troppo compiaciuto di sé, e del tutto esente da accenti drammatici, troppo beatamente invaso da una luce che si condensa sui corpi e le cose? Si sa che di recente anche in questa vicenda c’è stato un colpo di scena. È riemersa una prima versione del S. Paolo, di proprietà Odescalchi, ma quanto lontana dalla versione successiva, quanto imbevuta di sacra aura, di magica evidenza. Mentre purtroppo non possiamo fare un riscontro sulla tela gemella, andata perduta, e dunque dobbiamo ammirare un “Martirio di San Pietro”, quello tuttora esistente, in cui l’artista ha già iniziato il suo viaggio graduale di immersione nelle tenebre, anche se non è ancora iniziato il lungo “viaggio al termine della notte” da cui siamo partiti. Insomma, troppa luce, che poi in effetti è buio quasi totale, nel punto d’arrivo, troppa sospensione e stimolante incertezza per l’alba di una navigazione, che dunque ci nasconde ancora tanti segreti.
Questa volta il mio solito viaggio del tutto solitario e virtuale mi porta addirittura a New York, Metropolitan Museum, che propone una eccellente idea: concentrare il burrascoso percorso del Caravaggio in un alfa e omega, in un ultimo dipinto, forse dell’anno stesso della morte, il 1610, un “Martirio di S. Orsola” proveniente da Napoli. Palazzo Zavallos Stigliano, lo stesso luogo dove si conserva una copia di un altro dipinto caravaggesco ben più forte e riuscito, una “Giuditta che taglia la testa a Oloferne”, salito di recente agli onori della cronaca perché è emerso dalla Francia profonda il molto probabile originale di quel dipinto, esposto per qualche tempo a Milano, Pinacoteca di Brera. Nell’occasione io mi sono pronunciato, sull’”Unità”, a favore dell’autografia caravaggesca di quell’opera, sulla linea di uno dei massimi conoscitori di quei problemi quale Nicola Spinosa. Negli anni successivi, angosciato dalle sventure personali, il Maestro contraeva ancor più il suo linguaggio, lo invadeva con tenebre sempre più fitte, conferendo degli spasimi da dirsi addirittura pre-espressionisti alle figure maschili, rese ghignanti, simili a mascheroni solcati da rughe profonde. Quasi che, presago di una sua fine ormai prossima, l’artista volesse collocare i suoi dipinti estremi su un rogo distruttivo, ricavarne un’ultima fiammata, invitando i devoti seguaci a chiudere anch’essi quel capitolo. E infatti, poco dopo molti dei suoi allievi, anche tra gli inizialmente più devoti, come il Gentileschi e il Ribera, cominciarono a prendere le distanze, volgendosi magari all’”altro” forno, quello della scuola carraccesca, più moderata, più propensa ad accogliere canonici influssi classicisti. Ma in sostanza, dell’ultimo Caravaggio è facile discutere, quei dipinti catastrofici si lasciano sottrarre le chiavi interpretative con tutta evidenza.
Completamente diverso è il discorso se ci si porta agli inizi, testimoniati da una tela fascinosa come “I suonatori”, presente proprio nelle collezioni del Metropolitan, realizzata negli anni misteriosi a metà dei ’90 quando l’artista milanese si trasferì a Roma, dei quali non molto si sa, né a livello documentario né tanto meno da un punto di vista stilistico. Ha dominato a lungo, in proposito, la tesi di Roberto Longhi, ma corrispondente più che altro a un amore sviscerato dell’illustre storico dell’arte a favore del mito nordico della Lombardia o Padania come terra di forti realismi, sottratti alle bellurie provenienti da Firenze. Ma si tratta di una sorta di “leggenda metropolitana”, tra le più improbabili di quelle uscite dall’officina longhiana. Osservando appunto quella tela giovanile, non vi si colgono tracce dei vari “lombardi” sul tipo dei Savoldo e Moretto da Brescia, o anche di un più sodo e solido Moroni. L’unico retaggio che il Merisi sembra essersi portato dietro dal capoluogo lombardo proviene dal sicuro maestro che vi ebbe, Simone Peterzano, manierista privo di svenevolezze, anzi, coriaceo e capace di indurimenti. Se non mancasse una corrispondenza di anni, si potrebbe ipotizzare che il giovane Merisi gli fosse a fianco negli affreschi da lui realizzati in S. Maurilio, per poi portarsene qualche traccia nella trasferta romana. Ma in sostanza, dove trovare, guardandosi attorno, a Roma e dintorni, quella fattura capace di dare alle carni seminude di giovani, soprattutto a quello ripreso di schiena, tanta consistenza, nello stesso tempo unita a morbidezza? Ai nostri giorni potremmo parlare addirittura di una modellazione intervenuta con materiale plastico, o quanto meno con la cera con cui si ottenevano sorprendenti simulacri “più veri del vero” di organi anatomici. Perfino guardando verso Venezia, nel caso che ci fosse stato davvero un non confermato passaggio dell’artista per la Serenissima, e in particolare verso Giorgione, di nuovo non troveremmo tanta fermezza di forme. Notevole poi anche l’aria di sottile ebbrezza che sorride nei volti di questi efebi, del tutto in carattere coi suoni che stanno ricavando dagli strumenti, di cui peraltro non viene fatto particolare sfoggio, a contrasto con la capacità che si attribuisce al Merisi “prima maniera” di essere stato soprattutto un confezionatore di nature morte. Qui egli ci appare piuttosto un miracoloso compositore di nature vive, soavi, parlanti, soffuse di un’aura leggera, un po’ fatua, un po’ sacralizzante. Viene fatto insomma di parlare di un realismo che occorre andare subito a connotare con l’epiteto di “magico”, tale da caratterizzare tutta quella fase iniziale del Caravaggio romano, capace di estendersi fino alle prime due versioni del martirio rispettivamente di S.Paolo e di S. Pietro stesi per il Cerasi nella cappella da lui voluta in S. Maria del Popolo. E anche qui siamo di fronte a un mistero: che cosa indusse l’artista a ritirare quelle due versioni? Un rifiuto da parte del committente o dei suoi eredi, una sua stessa decisione che lo induceva a sconfessare quell’inizio troppo compiaciuto di sé, e del tutto esente da accenti drammatici, troppo beatamente invaso da una luce che si condensa sui corpi e le cose? Si sa che di recente anche in questa vicenda c’è stato un colpo di scena. È riemersa una prima versione del S. Paolo, di proprietà Odescalchi, ma quanto lontana dalla versione successiva, quanto imbevuta di sacra aura, di magica evidenza. Mentre purtroppo non possiamo fare un riscontro sulla tela gemella, andata perduta, e dunque dobbiamo ammirare un “Martirio di San Pietro”, quello tuttora esistente, in cui l’artista ha già iniziato il suo viaggio graduale di immersione nelle tenebre, anche se non è ancora iniziato il lungo “viaggio al termine della notte” da cui siamo partiti. Insomma, troppa luce, che poi in effetti è buio quasi totale, nel punto d’arrivo, troppa sospensione e stimolante incertezza per l’alba di una navigazione, che dunque ci nasconde ancora tanti segreti.

Standard