Arte

Un giusto omaggo a Albrecht Duerer

Una mostra che nessuno potrà accusare di essere superflua o ripetitiva è quella ora offerta dal milanese Palazzo Reale e dedica a Albrecht Duerer (1471-1528), affidata oltretutto allo storico d’arte più adatto a curarla, l’olandese Bernard Aikema che ha assunto con massima autorevolezza il ruolo di “ponte” tra la pittura del Nord, Fiandre, Germania, Olanda stessa, e l’area mediterranea, col nostro Paese alla testa. A siglare un simile ruolo Aikema è stato pure insignito di una cattedra all’Università di Verona, cioè della città che nei secoli è stata la porta di passaggio dei vari scambi tra Nord e Sud. C’è anche da menzionare la perfetta “lezione magistrale” che Aikema fornisce proprio all’ingresso della mostra riassumendone i caratteri in un messaggio bilingue, e così fornendo uno strumento di comunicazione assai più valido di dotti cartelli a stampa. L’unico appunto che mi sentirei di fare alla mostra ne riguarda il titolo, con quell’ennesima etichetta di Rinascimento a immergervi anche il grande pittore tedesco. Penso che sia un termine inflazionato e inconcludente, meglio eliminarlo per fare chiarezza. O ammettere, come ha fatto il maggior interprete storico di tutti quei secoli, il nostro Vasari, che semmai ci si deve portare all’alba stessa del fenomeno, a Cimabue, sul finire del Duecento, quando l’artista fiorentino abbandonò la lingua “greca”, ovvero il mosaico bizantino, per tornare al “latino” dei padri, ritrovando il naturalismo-realismo della tradizione greco-romana, che poi si sarebbe sviluppato quasi ininterrottamente, fino all’Impressionismo. Molto meglio rifarsi alla griglia di stili, da lui detti “maniere”, che il Vasari con estrema perspicuità fissò nei proemi alle “Vite” in numero di tre, concludendo con una “maniera moderna”, propria di Leonardo, Raffaello, Giorgione, Tiziano. Ecco pronunciata la parola, che può apparire molto generica, ma che è l’unica conveniente: modernità. Solo che Vasari, magari, da quella sua modernità così felicemente individuata, pretendeva proprio di escludere Duerer, mentre noi ve lo dobbiamo includere a pari merito con i rivali italiani, pur introducendo una distinzione capitale. Tra gli attributi che con tanta proprietà l’Aretino assegnava ai “moderni”, vita, movimento, disinvoltura, al tedesco mancò un attributo decisivo, la morbidezza di un’immersione atmosferica. In altro luogo mi sono permesso di usare aggettivi molto banali, parlando, per i nostri, al seguito di Leonardo, di una modernità “bagnata”, mentre quella del tedesco è “asciutta”, non conosce cioè l’abbraccio atmosferico e la relativa corrosione dei lineamenti, questi restano “duri”, con un facile gioco di parole cui ricorreva lo stesso Vasari, pronto a redarguire i suoi colleghi toscani, come il Pontormo, che si facevano incantare da quel linearismo impeccabile. In effetti il Duerer è grande soprattutto nel disegno, affidato all’incisione, alla lito, alla xilografia, eppure, se si guarda bene, sa muovere ugualmente i contorni, dargli spessore, vibrazione, dinamismo, col che acquista del tutto un biglietto d’ingresso nella modernità. E ne risulta anche una linea divisoria rispetto a tanti suoi connazionali che invece restano dentro la “seconda maniera”, sempre per dirla col Vasari, e che qui giustamente Aikema invita al comune banchetto, dove però se ne stanno un po’ appartati, e sono i vari Cranach il Vecchio, Hans Baldung Grien, Albrecht Altdorfer. Del resto, non è affatto una questione di nazionalità, di DNA, che nella cultura ha poco da insegnare, bensì di fasi storiche, di generazioni. Infatti la medesima rigidità, di corpi inanimati, fatti di pelli “scorticate” (direbbe il Vasari), o di lamine metalliche, la troviamo pure nei Nostri, anch’essi qui convocati, sul tipo di Alvise Vivarini, Vittore Carpaccio, e perfino il pur grande Mantegna. La fatale scissione si insinua anche nella famiglia Bellini, tra un Gentile, che resta immobile al pari di ogni altro compagno di generazione, mentre il solo Giovanni sa spingersi oltre, e dialogare con i “moderni”, in una fertile partita di scambio. Del resto, in questa sua indubbia conquista del traguardo della modernità, Duerer non rimase certo isolato, ma si trascinò dietro alcuni seguaci anche al di qua delle Alpi- Non si comprendono il Lotto, il Savoldo, magari il Moretto da Brescia, se non si avverte quanto venissero influenzati dall’esondare, fuori dai confini germanici, di quel Tedesco del tutto centrale e propositivo, pronti a seguirlo nella pratica di una modernità, ma secca, anche la loro. In proposito si è avuto l’errore di Roberto Longhi, restio, quasi sulla scorta del Vasari, a riconoscere i meriti dell’artista tedesco, e a confabulare attorno a una inesistente linea padana, quando invece, in loro, si trattava di un evidente influsso proveniente dal magistero duereriano. La geografia ebbe il suo peso, ma non per influsso di una mitica Padania, simile a una misteriosa Atlantide, ma per tangibili ragioni di vicinanza territoriale. E beninteso la durezza stilistica transalpina si accompagnava anche a una analoga rigidità di costumi, ai limiti con la Riforma.
Certo, se si ammirano i pochi capolavori tradizionali del repertorio duereriano presenti in mostra (alcuni musei hanno rifiutato i prestiti), come la “Festa del Rosario”, o “Cristo fra i Dottori”, si potrà rilevare, sì, la secchezza dei contorni, come se il colore fosse intervenuto a posteriori, a riempire tracciati segnati col bulino, ma, come già si diceva, le figure vibrano, si agitano, acquistano un movimento, che c’è, seppure poco appariscente Del resto, se si vuole una conferma dell’indubitabile “modernità” del nostro artista, basterà ammirare i paesaggi che seppe impostare nei suoi viaggi proprio verso il nostro Paese, a fine ‘400 e ai primi del ‘500, quando venne a suonare il piffero non solo verso il Lotto, ma anche verso Giorgione affrettandone la maturazione, e forse battendolo sul tempo nella composizione di paesaggi miracolosamente sciolti, liberi, su sui il Longhi avrebbe dovuto fissare la sua attenzione per dargli un adeguato riconoscimento di prontezza di sensi. Ma certo gli era congeniale irrigidire il suo discorso nelle varie prove grafiche, che costituiscono il nerbo della mostra, in quanto, dato il loro carattere di arte moltiplicabile in parecchi esemplari, è più agevole averne il prestito Ma anche qui, non ci si lasci incantare dalla apparente fissità delle immagini, dalla loro ieraticità. Un’osservazione del genere vale perfino per la più nota delle opere incisorie di Duerer, la “Melanconia”. Smettiamola di versare dotti fiumi d’inchiostro sui significati reconditi dell’opera, seguiamo il Vasari, anche se restio ad ammirare quell’incisione, lasciamoci incantare dalla perfetta convivenza tra i “duri” corpi geometrici, quasi di anticipo sul Cubismo, e invece lo sfrangiarsi in mille pieghe dell’abito e della manica della figura pensosa. Non riusciamo a leggerne il pensiero, ma dobbiamo apprezzare il libero, ben chiaroscurato, in definitiva morbido gioco disegnato dalla veste, che dà verosimiglianza, credibilità perfino alle ali, come fossero le appendici di qualche indumento alla moda, di uso normale e quotidiano.
Duerer e il Rinascimento, a cura di Bernard Aikema. Milano, Palazzo Reale, fino al 24 giugno. Catalogo 24orecultura.

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