Ho detto, domenica scorsa, che un merito della mostra “La grande madre”, curata da Massimiliano Gioni al Palazzo reale di Milano, è di non tentare di giustificarsi con un rinvio all’Expo, ma così lasciando apparire una certa gratuità, che in definitiva ne fa come una riedizione della benemerita “L’altra metà dell’avanguardia” voluta da Lea Vergine, ma in tempi ben più precoci. Un merito del genere non assolve invece “Giotto, l’Italia”, in atto in un’altra ala della nobile sede ambrosiana, che viceversa vuole fornire ai visitatori dell’Expo una sorta di sintesi di uno dei grandi maestri della nostra arte. Ma è un’idea sballata, per fortuna non raccolta sistematicamente, come pure qualcuno aveva suggerito, o tentato di fare. Visto che siamo una sorta di cassaforte di tanti tesori artistici sparsi nelle nostre mille località, sarebbe stata una assurda pretesa quella di trasportarli tutti a Milano per l’occasione, fra l’altro nullificando uno degli scopi dell’Expo, che sarebbe di incrementare il turismo nei vari siti della Penisola. Se poi c’è un artista che male si presta a essere dato in compendio con opere mobili, questo è proprio Giotto, il cui genio si manifesta soprattutto nei grandi cicli ad affresco, e dunque bisogna spingere i visitatori a fare uno sforzo e a recarsi a Padova o ad Assisi, se proprio vogliono ammirare in giusta misura il grande talento giottesco, fatto per la narrazione articolata e dilagante, e non certo per poche figure impalate, strette in tavole necessariamente limitate. Sarebbe come voler dare, ai nostri ospiti, una sintesi dei valori atletici del Paese, ma ospitando in uno stadio dei corridori costretti a valersi di una sola gamba, come dei portatori di handicap. Non è che gli organizzatori non si siano impegnati al loro meglio, ma è proprio il talento giottesco, come del resto quello di ogni altro suo coetaneo, che mal si esprime a livello di tavole necessariamente ristrette, anche se si deve pur riconoscere che si sono fatti miracoli per andare a recuperare quanto si poteva in un tale ambito, con eccellente esposizione, e congruo corredo di schede analitiche in catalogo. Tutto bene, insomma, tranne i limiti intrinseci del progetto: troppo poco, sia per veri intenditori della nostra arte, sia anche per un pubblico inesperto, cui semmai era meglio mettere nelle mani un bignamino al passo dei nostri tempi, cioè un dvd con ampia documentazione dei grandi cicli giotteschi. Semmai, volendo condurre un’impresa di qualche spessore scientifico, quale la presente non può essere per limiti di partenza, si potevano aspettare tempi giusti e condurre un’indagine sui tanti problemi ancora aperti, andare a vedere i veri rapporti intercorsi tra pseudo-maestro e allievo, Cimabue e Giotto, oppure affrontare la sfida con Pietro Cavallini, tentare di chiudere per sempre l’affannoso dibattito su chi abbia davvero dipinto il ciclo francescano ad Assisi, o esaminare le influenze giunte al pittore dai grandi scultori sul tipo di Giovanni Pisano e Arnolfo di Cambio.
Osservato tutto ciò, resta senza dubbio del buono nella presente rassegna, è doveroso ammirare la plasticità sovrana cui si ispirano i volti della Madonna e del Bambino, nella giovanile tavola conservata in Santo Stefano al Ponte, nonostante la rigidità e staticità delle pose, o forse proprio in virtù di queste, esiti in cui Giotto corre in avanti, sembra già anticipare la pienezza di forme di cui sarà capace Masaccio, un secolo dopo. Tanta forza e robustezza di forme trova conferma anche nel polittico di Badia, agli Uffizi, diffondendosi dalla Madonna e Bambino ai Santi laterali, anch’essi modellati con una forza degna appunto di Arnolfo o di Giovanni Pisano, e così si dica anche per altre opere faticosamente strappate dai rispettivi musei, magari con un Polittico Stefaneschi che tenta di rendere in breve le enormi capacità dell’artista nel movimentare le masse, nel farsi cioè grande narratore, ma, lo si deve ripetere, per apprezzarlo in questo suo aspetto dominante bisogna rivolgersi altrove. Anzi, c’è perfino un rischio insito in questa mostra, che ovviamente non si dà limiti cronologici ma percorre l’intera parabola dell’artista, nell’affannosa ricerca di strappare tavole dunque sia possibile reperirle, e farsele imprestare. Si passa quindi alle opere tarde, quando il genio grottesco è ormai diventato una macchina schiacciasassi che procede implacabile, magari con l’aiuto di una numerosa bottega, e rischia di negare proprio l’audace e magnanima presentazione delle figure ai suoi inizi, quando queste si presentano con assoluto e individuale rilievo plastico. Se per esempio passiamo a osservare il Polittico Baroncelli di S. Croce, e in particolare la tavola concernente Dio Padre e Angeli, vediamo un artista che sacrifica la disinvoltura sintattica di cui ha dato prove sublimi nella sua precedente carriera, e ora stipa le testine degli angeli in modi pedissequi, stereotipati, quasi preludendo a un suo seguace come Giusto dei Menabuoi, e con lui anticipando tutta la seconda metà del Trecento che rimarrà impietrita, incantata sotto lo sguardo spietato del grande Maestro e pifferaio inesorabile, attendendo che a sbloccare la situazione ormai attardata venga Masaccio, ma ricollegandosi alle magiche apparizioni del primo tempo.
Giotto, l’Italia, a cura di S. Romano e P. Petraroia, Milano, Palazzo Reale, fino al 10 gennaio, cat. Electa.