Paola Marini, passata in forza della riforma Franceschini dalla direzione del veronese Museo di Castelvecchio alle ben più prestigiose veneziane Gallerie dell’Accademia, ha seguito l’esempio dato dal suo collega Elke Schmidt, anche lui promosso dal ministro alla guida degli Uffizi. L’idea è di mettere fianco a fianco nelle rispettive sedi i capolavori di un medesimo artista, o di opere comunque tra loro strettamente legate, che a quella sede appartengono. Se Schmidt ha proceduto così in favore di Leonardo, la Marini l’ha fatto per Giorgione, accostando le due opere di cui la Galleria si fa vanto, il paesaggio “La tempesta” e il “Ritratto di vecchia”, a un terzo lavoro, la cui paternità giorgionesca non è del tutto sicura, ma l’ha ricevuta da grandi critici, come Roberto Longhi, e del resto, se non la si attribuisce a Giorgione, a chi altri darla in quel giro d’anni? Il dipinto era stato acquistato dal grande collezionista Mattioli, che a dire il vero non si è disfatto dei suoi capolavori ma ha proceduto dandoli in comodato, come è il caso di questo dipinto, affidato alle Gallerie veneziane dall’erede Laura Mattioli Rossi, la stessa che a New York ha creato il CIMA, il Center for Italian Modern Art. Del dipinto è incerto anche il soggetto, si parla in genere di un “Davide cantore”. In Giorgione tutto è misterioso, ma certo egli è stato incalzato dalla premonizione di “non avere tempo”, di dover affrettare le tappe della sua vertiginosa corsa verso la modernità. C’è quasi un abisso tra la sua tavola degli esordi, la Pala di Castelfranco, dove l’ordito ancora quattrocentesco alla maniera del Bellini è ancora evidente, anche se è merito del nuovo protagonista aver trasportato la scena all’aperto, avvolgendola in tanta atmosfera, arricchendola di ombre che si allungano. Ma in seguito egli ha proceduto come con delle zoomate successive, e l’opera in questione segna un culmine in questo senso, con ben tre volti colti in primo piano, per giunta animati da un movimentismo che manda all’aria gli equilibri, le simmetrie ancora di sapore quattrocentesco, per stipare le facce in libera maniera sghemba. Domina in primo piano il volto, indagato da vicino, colto con sguardo penetrante, radente, dell’incognito cantore, che però mette nel gesto, nella forza con cui abbranca lo strumento, gettandolo fuori campo, la stessa violenza che uno scherano potrebbe mettere nell’aggredire una povera vittima. Da qui si arriva fino al Caravaggio, neppure il “creato” di Giorgione, Tiziano, saprà godere di quella medesima disinvoltura nel proporre una scena animata. L’anziano sulla destra è il degno continuatore del “Ritratto di vecchia”, ma per lasciare al dominatore in primo piano tutto il rilievo che gli spetta assume una posa obliqua, di traverso, che è già un atto di disinvoltura, rispetto alla posa frontale con cui in genere, anche in pieno Cinquecento, venivano colti i ritratti. E anche la terza presenza, sulla sinistra, riceve una posa inclinata, e trattata con mano leggera, per non limitare tutto il rilievo spettante al protagonista in primo piano. C’è la grande libertà di far posto a tre figure di colpo, ma certo bisogna che almeno due tra queste si sacrifichino, attenuino la loro presenza, si mettano di lato per consentire al dominatore dell’episodio una massima capacità di movimento. C’è da chiedersi dove sarebbe arrivato Giorgione, se l’epidemia scoppiata Venezia nel 1510 non lo avesse tolto di mezzo, e si sente il bisogno di tornare a interrogare le ombre che sono rimaste del ciclo terminale giorgionesco al Fondaco dei Tedeschi per verificare se anch’esse attestano una uguale carica di dinamismo, di aggressione spaziale.