Nei giorni di sabato pomeriggio 3 dicembre, e domenica mattina 4 si è svolta la tradizionale manifestazione nota come RucercaBO, erede, dal 2006, del precedente RicercaRE di Reggio Enilia, Qui non intendo analizzare da vicino i dodici partecipanti, selezionati al solito dal terzetto composto, oltre che da me, da Niva Lorenzini e Gabriele Pedullà. Ne darò una sintesi essenziale. Nella tornata di sabato 3, direi che sono emerse soprattutto due voci poetiche, di Serena Dibiase e Valentina Proietti Muzi. Nell’occasione ho dichiarato che il mio criterio per valutare prodotti in versi è che siano lontani dal praticare il poetichese, cioè quelle modalità convenzionali di chi ha scarsa inventiva, allo stesso modo che tra i critici d’arte bisogna condannare il critichese e tra i filosofi il filosofese. Nelle liriche di queste due, intanto per loro fortuna assai poco liriche, si sorprendono invece delle frasi di semplice prosasticità, asserzioni di grado zero, formule di saggia condotta di vita. Ho proposto che le nostre due cerchino colleghi o colleghe e che assieme formino un’antologia lontana dai due estremi, di ricerche sperimentali forzate, ma anche appunto di ricadute in compiaciuto poetichese. Invece la mattina di domenica 4 ha visto l’affermazione della prosa, con il riapparire di un vecchio binomio che da tempo era sparito dai nostri commenti. Avevamo parlato infatti di due tipi di narrazione, l’una caratterizzata dalla “inappropriazione”, con quasi scomparsa di un “io” narrante, e invece all’opposto una prosa di appropriazione, con una soggettività sempre presente, all’arma bianca, dotata di spirito aggressivo. Ebbene, nel corso di quella mattinata sono comparsi validi campioni di ciascuna di queste categorie. Luciano Neri è stato buon testimone della prima categoria, con un descrittivismo neutro e una circostanziata topologia, roba da ricordare i lontani prodotti dell’écoledu regard, da Robbe-Grillet a RIcardou. Magari a tanta freddezza si può collegare anche il brano letto da Carlo Sperduti, che però ha passato il segno, disperdendosi in astratte riflessioni cosmologiche. L’altro aspetto è stato testimoniato assai bene da Silvia Lumaca, che però, forse terrorizzata dal proprio cognome, cioè con la paura di procedere troppo lentamente, ha letto in gran fretta, smozzicando le parole, quasi rendendole incomprensibili, d’altra parte l’azione narrata, con il premere tumultuoso di dati esistenziali, esigeva in qualche misura tanto incalzante affollamento. E poi, Jessica La Fauci, con un opportuno avvicunarsi e allontanarsi, a ritmi alterni, dai suoi oggetti di esame. In proposito, sia nei loro caso che in altri, ho rovesciato la famosa frase del Foscolo, Italiani, vi esorto allestorie,proclamando invece, cari giovani narratori, vi esorto a evitare le tentazioni del romanzo. Ci sono tante modalità di esprimersi senza sentire il bisogno di approdare al romanzo, che senza dubbio è misura allettante, su un piano di successo anche economico, ma può essere fuorviante. Lo aveva capito D’Annunzio, che ha un intero volume delle sue opere consacrato a tante diverse modalità di intervento in prosa. Anche qui, visto che ho ritenuto che per le nostre due fosse arduo arrivare al romanzo, ho consigliato di consorziarsi magari con altri e di offrirci una densa antologia di brani distinti, qusi in un rilancio di prosa d’arte, ma degna dei nostri tempi.