Arte

Un capolavoro di Tiziano in prestito temporaneo a Palazzo Te

Ho accennato più volte al fatto che la romana Galleria Borghese è fin troppo piena di capolavori, per cui, invece di aggiungerne altri con il pretesto di apportare qualche aspetto del contemporaneo, ci sta meglio un prelievo, uno sfoltimento, seppure temporaneo. Questo avviene ora con l’invio di un capolavoro di Tiziano, “Venere che benda Amore” in prestito temporaneo a un’altra sede, che pure appare già anch’essa come un forziere di capolavori, il Palazzo Te di Mantova. Ma in tal modo almeno uno non particolarmente competente come me in cose tizianesche può ammirare da vicino (per modo dire, il tramite è pur sempre un’immagine elettronica) quel dipinto di particolare ricchezza e qualità, in cui si conferma il big match tra il genio veneto e l’altro uscito dalle Marche, Raffaello. In realtà il Vecellio, quando dipinse quest’opera, approfittando della sua lunga esistenza aveva superato l’altro di circa un ventennio, e non era ancora entrato nella sua fase estrema, in cui i corpi si sfilacciano, affrontati da una luce sulfurea che li rende iridescenti, slabbrati. Qui le quattro figure maggiori che compongono la scena mantengono una loro presenza sostanziosa, ma si presentano già con quell’aria morbida, di sensualità diffusa, seppure ancora tenuta a freno, che sono le insuperabili doti tizianesche. Anche lui, come il suo ormai scomparso rivale, possedeva all’estremo l’arte di naturalizzare gli episodi, come questo, che in sé sarebbe fatuo, suscettibile di un trattamento convenzionale. Ma del tutto schietto e spontaneo è il gesto con cui la mamma, pardon, Venere stessa, si china sul figlioletto per bendarlo, come farebbe una brava genitrice per assecondare il desiderio del pupo, per prestarsi a una specie di gioco, mentre un altro, forse invidioso del gesto che sembra anteporgli un fratellino, si stringe a lei dal di dietro, alle spalle, quasi per sollecitare che si dia anche a lui una porzione di affetto, o per esigerla quasi con la forza. Non so bene come l’iconografia giustifichi quella specie di raddoppio della figura di Venere in una immagine quasi speculare, che però è un ottimo pretesto per consentire all’artista a far entrare in campo un’altra figura di uguale portata e trattamento. Anche il gesto proverbiale del Cupido che tende l’arco galeotto viene trattato con la stessa cura di dargli un’aria del tutto naturale, anzi, casuale, quasi nascondendolo alla vista, mettendolo in secondo piano. Insomma, un trattamento che non potrebbe essere più naturale, verosimile, preoccupato di non sottostare alle imposizioni imposte dal rito, e invece di dargli un massimo di credibilità, di freschezza, per cui da sempre mi avviene di applicare a Tiziano due sostantivi: flagranza e fragranza delle apparizioni.
Tiziano, Venere che benda Amore, in deposito temporaneo a Manova, Palazzo Te, fino al 2 settembre. Testo critico di C. Cieri Via e M.G. Sarti.

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