Leggo da qualche parte, ho pero la notizia, che il napoletano Capodimonte presta per qualche tempo a un altro muswo europeo della siua forza un suo immenso capolavoro, La trasmigrazione di Cristo, in cui Giovanni Bellini supeta se stesso e già anticipa, senza attendere i primi del ‘5oo, Giorgione e Tiziano. Il bello è che in questi giorni si celebrano dgli anniversari dalle rispettive morti sia del Perugino che del Signorelli, nati dopo di lui ma arretrati rispetto al suo linguaggio novissimo, con corpi ancora appiccicati tra loro, o ritti in pose statiche come belle statuine, Invece il Bellini batte perfino i suoi coetanei, nati come lui nella seconda generazione, attorno al 1430, a cominciare dal più grande tra tutti, il Mantegna, per non parlare di altri, come il Crivelli o Cosmé Tura, In tutti questi c’è ancora qualcosa di duro e di spigoloso, che sa di marno o di pietre dure, o di rigurgiti di antichutà, cui non sanno rinunciare. Si veda invece come il Bellini, cominciando dall’alto, sa far correre in cielo nuvole gonfie d’aria, di vento, leggere e spaziose, Inoltre Cristo non fa solo statica parata con i suoi due interlocutori, ma sostiene davvero una conversazione con loro, cui essi partecipano con appropriati movimenti del corpo. Notevoli anche le figure dei partecipanti più umili che se ne stanno a terra, accosciati, ma anch’essi con pose elastiche, pronti ad alzarsi, comunque elontani da una staticità marmorea e impietrita. E anche se si guarda al suolo, vi si scorge senza dubbio uno strato messo a nudo di rocce scoperte e aride, ma subito coperte da un buon strato di humus fertile, verdeggiante in cui la vita vegetale può crescere e prosperare. Insomma, più che traghettatore verso la maniera moderna, come a me e a tanti alti è capitato di dire, Bellini vi entra già con tanto anticipo, costituendo un miracolo di intraprendenza e originalità