La Galleria Pace di Londra, che suppongo essere consociata alla casa madre di New York, così da costituire una di quelle piovre della globalizzazione di cui forse il massimo esempio è Gagosian, annuncia una mostra dello statunitense Richard Tuttle (1941). La cosa mi dà la stura a ricordi che possono risalire a Pittura-ambiente, una mostra tenutasi al Palazzo Reale di Milano nell’estate 1979, e dunque quasi quarant’anni fa, a cura mia e di Francesca Alinovi. Non partecipò il terzo membro del nostro industrioso gruppuscolo, Roberto Daolio, con cui però stavamo già realizzando le Settimane internazionali della performance alla GAM di Bologna, da due anni, e presto avremmo co-firmato l’impresa dei Nuovi-nuovi. Quella mostra si teneva nel quadro di un programma molto ambizioso affidatomi dal brillante sindaco di allora, Carlo Tognoli, tuttora molto rimpianto dai suoi concittadini. Non essendo agibile il piano nobile, interessato da un eterno restauro che solo decenni dopo avrebbe avuto una conclusione, avevamo guardato in alto, al secondo piano, ben articolato in una infinità di stanze, allora degradate ad uffici. Dopo di noi, la stessa amministrazione ambrosiana ne fece buon uso per sistemarvi le proprie collezioni del contemporaneo, e in definitiva nella attuale soluzione definitiva tiene agganciati quegli spazi con un’audace passerella che vi conduce dal corpo centrale sito nell’Arengario. La mostra, come ne indicava il titolo, puntava su una soluzione-ponte, per un verso prendeva atto della rinascita della pittura, dopo la proscrizione scagliatale contro dal clima del ’68, e dunque conservava un certo ossequio alla fuoriuscita dell’arte dagli spazi tradizionali, a occupare appunto l’ambiente, ma intendeva dimostrare che un tale compito innovativo poteva anche essere affrontato senza rinunciare ai valori pittorici. Quanto a presenze, si era a una sorta di matrimonio tra italiani e statunitensi, con qualche inserimento francese dal gruppo di Supports-Surfaces (Charvolen, Viallat). E Richard Tuttle era una punta di diamante della squadra d’oltre Oceano, con accanto altri bei nomi, tra cui, per ricordare quelli di più lunga durata, Lynda Benglis, con le sue esuberanti colate di materia plastica, Mel Bochner, disposto a lasciarsi alle spalle gli esercizi “concettuali”, Ron Gorchov, coi suoi strani involucri. C’erano anche artisti nostrani, come Agostino Bonalumi che, a differenza del troppo statico Castellani, andava alla ricerca di nuove giaciture per i suoi “shaped canvases”. C’era perfino Claudio Olivieri, che quasi per scommessa aveva accettato di muoversi nello spazio accampandovi, come su stampelle, alla maniera di Calder, dei “mobiles” policromi. E beninteso era presente una coppia di sapienti navigatori tra le due e le tre dimensioni come Marco Gastini e Sandro Martini. C’era pure qualche futuro membro della formazione Nuovi-nuovi, ovviamente sul versante aniconico, come Vittorio D’Augusta, Giorgio Zucchini, Enzo Esposito. L’invito era stato rivolto anche a Mimmo Paladino, dato che a quella data (estate ’79) non era ancora avvenuta la drastica separazione tra Transavanguardisti e altre formazioni, ma Mimmo in quel momento era in feroce contrapposizione al concittadino Enzo, e dunque, quando, guidato da me, percorse le sale già allestite e vide in una di queste i graffiti già tracciati da Esposito, se ne andò sbattendo la porta.
La pattuglia statunitense era stata reclutata soprattutto da Francesca, anche con viaggi in loco, da cui ebbe inizio il suo ruolo di nostra ambasciatrice e importatrice dei valori crescenti sull’altra sponda dell’Atlantico. Tra questi riuscì pure a riportarci, miracolosamente, la presenza di Robert Irwin, abituato a ben altri spazi. Ma appunto l’ospite più illustre era Tuttle, che incistava sulle pareti i suoi pezzulli minimi, ma già incurvati come boomerang, come ganci per afferrare a volo altri corpuscoli poco distanti. Anche in seguito egli ha sempre lavorato di accostamenti, incastri, assemblaggi, ma con due caratteristiche, di valersi di materiali tessili, e dunque plastici al massimo, e inoltre capaci di sostenere, anzi di esigere una brillante colorazione, col che egli è stato come una spina al fianco dei vari minimalisti su superficie, sul tipo dei vari Mangold o Knowland, magari tale da competere con Frank Stella, quando questo artista rinunciò al geometrismo della prima ora, che lo poneva a fianco degli astratto-geometrici sopra menzionati, e si mise ad attorcere, ad aggrovigliare le sue partizioni fin lì troppo regolari, E anzi, su questa strada, Stella è andato oltre le misure in definitiva contenute di Tuttle, o se si vuole, è il contrasto tra soluzioni a monoblocco e altre che invece puntano decisamente alla costellazione plurima. Quindi, a voler trovare un riferimento più pertinente, diciamo che Tuttle procedeva in direzione degli esiti di Mike Kelley della variante tissulare e policroma. Sappiamo ahimé che questa voce tra le più vivaci nel firmamento statunitense si è spenta volontariamente, mentre Richard continua nel suo piacevole, accattivante bricolage policromo, sempre alla ricerca di combinazioni preziose, imprevedibili, godibili anche per la loro freschezza. La “flatness”, anche prima dell’arrivo sulla piazza del giapponese Murakami, ha in lui un preciso, illuminato cultore, attento anche a non strafare, a condurre il suo esercizio in dimensioni contenute, ottimali per collocazioni a parete., e cioè in “ambiente” chiuso, ma raccolto e concentrato.
Richard Tuttle, the Critical Edge. London, Pace Gallery, fino 13 maggio.