Arte

Tiziano, sempre “flagrante” e “fragrante”

In genere passo i miei Natali a Urbino, città d’origine di mia moglie, e non manco mai di fare una visita al Palazzo Ducale. Quest’anno vi ho trovato una bella sorpresa, l’esposizione della “Venere” detta appunto di Urbino, l’opera famosa di Tiziano nata da quelle parti, da cui però era stata allontanata, ritornandovi solo ora, provenendo dalla sua sede definitiva, gli Uffizi di Firenze, che se ne erano separati più volte per mostre temporanee, ma mai per procurarne il ritorno al luogo di partenza. Nell’occasione il celebre dipinto è accompagnato da notizie didattiche ben fatte che elencano le varie ipotesi interpretative emesse su di esso, quasi al pari di quel record assoluto di esegesi iconografiche che si assiepano attorno alla pierfrancescana “Flagellazione di Cristo”. Tra le varie ipotesi, accuratamente indicate, la più insostenibile mi sembra una delle più anziane, secondo cui sarebbe stato un rampollo dei Della Rovere, Guidobaldo II, attorno al 1538, ad avere commissionato il dipinto al sommo Veneziano come ritratto della moglie, Giulia da Varano. Contro questa lettura si è schierato Antonio Paolucci, svolgendo invece in merito il commento più accettabile, quindi ricordare qui il suo verdetto diventa anche un modo appropriato di celebrarne il congedo dalla prestigiosa qualifica di Direttore dei Musei Vaticani che lo studioso, anche lui di origine marchigiana, ha degnamente sostenuto fino a poco fa. Non si dedica a una moglie legittima un nudo così schietto, scoperto, è il caso di dirlo, e dunque in buona misura scandaloso. Inoltre, perché arrivare quattro anni dopo il matrimonio? E ovviamente per una committenza così ufficiale e impegnativa i soldi fin dall’inizio non potevano mancare, ma la tradizione ci dice invece che il Della Rovere non fu in grado di sborsare quanto l’acquisto della tela esigeva. Provò a ricorrere alla borsa più nutrita della madre, Eleonora Gonzaga, ma incontrando il rifiuto di lei, che vedeva in quel desiderio del figlio un qualcosa di superfluo, o addirittura di licenzioso. Infatti le testimonianze coeve si limitarono a parlare di una “donna nuda”, invitando in tal modo a derubricare il soggetto che aveva posato come modella, quasi al rango di “ragazza di vita”, sorpresa nell’intimità della sua stanza, dove magari riceveva ospiti non particolarmente altolocati, mostrandosi a loro in deliziosa intimità, col cagnolino domestico esibito in bella vista, e le fantesche che sullo sfondo rovistano nei bauli. Insomma, una quotidianità quasi intimista, in cui si manifestano appieno le due doti che bisogna riconoscere in primis al Vecellio, la “flagranza” nell’afferrare uno spettacolo in tutta la sua realtà, e nella piena “fragranza” di colori e dati sensibili. E’ vero che, al momento, Tiziano si ferma a metà strada. Se quel nudo manca di sacralità, di dignità nobiliare, non è però avviato lungo la china di pose sempre più lubriche e sconvenienti, come succederà in seguito quando al posto di una giovane in definitiva casta e contegnosa subentrerà una Danae del tutto acquiescente alla libidine di Giove, pronta a piegare le membra per accogliere il seme, pardon, la mitica pioggia d’oro. E su questa china, del resto del tutto propizia a valori di una pittura sempre più accesa e “moderna”, Tiziano sa trovare di volta in volta i testimoni e pronubi più convenienti, fermandosi ancora a mezza strada, nella versione di Napoli, Capodimonte, in quanto a rimirare l’accoppiamento già manifesto ed eloquente assiste un contegnoso amorino, mentre in versioni successive compare una megera che ha deciso di gettare ogni maschera di ipocrita perbenismo per assumere i panni della mezzana.
Grande festa, dunque, al Palazzo Ducale di Urbino, per il ritorno insperato, visibile fino al prossimo 8 gennaio, di quella sorta di figliol prodigo nell’ambito dei capolavori smarriti per strada, il che ha reso legittimo pure di mettere in bella mostra due dipinti tizianeschi “minori” presenti nelle collezioni normali. Si tratta del “recto” e “verso” di uno stendardo destinato a scopi liturgici che del resto da tempo si era provveduto a separare, ottenendone così due immagini simmetriche, da affiancare: una “Ultima cena” e una “Resurrezione”, dove si confermano in alto grado le già indicate qualità precipue dell’artista, la flagranza e la fragranza. Da notare che il formato esteso in altezza, ma ridotto in larghezza, imposto dallo stendardo, obbliga l’artista, nel concepire la sua “Ultima cena”, ad accorpare gli apostoli intenti al banchetto, a prendere cioè la tavola imbandita non in campo lungo bensì di scorcio, in modo da “farcela stare”, con la necessità di comprimere gli apostoli, così quasi entrando in gara con quel fiero e insidioso avversario che Tiziano, già negli anni ’40 in cui si suppone abbia dipinto le due facce di questa splendida “carta da gioco”, aveva incontrato nella persona del Tintoretto. Una volta tanto, invece, non lo si potrà ritenere il padre putativo del Veronese, che di sicuro non avrebbe mai accettato di comprimere a quel modo le sue superbe “Cene”, tutte dispiegate per il lungo. Qui il banchetto è intimo, familiare, deliziosamente quotidiano, come ribadiscono anche le stoviglie in tavola. Anche se, a rialzare tanta sublime pochezza, l’artista ha provveduto a delineare, al di là della finestra che si apre sull’esterno, i profili nobili di due architetture della romanità-classicità, il Pantheon (o Castel S. Angelo?) e la Piramide Cestia. Ma quegli austeri fantasmi, del resto tracciati a fior di pennello, non disturbano la insistente prosaicità della tavolata e dei suoi ospiti. Pregna di tutte le migliori componenti dell’arte tizianesca è anche l’altra scena, dove il corpo di Cristo, svettante nel cielo in verticale, non è affatto un vocabolo di austerità e di eroismo, ma corrisponde a quei corpi mobili che il Vecellio si compiace di far apparire in cielo, non proprio come eventi metafisici, bensì come fenomeni perfino meteorologici, al giorno d’oggi si potrebbe parlare di apparizioni di dirigibili, di aerei, di Ufo, così da suscitare la meraviglia e la sorpresa dei miseri mortali, che gravano in primo piano e non possono evitare pesanti gesti di meraviglia, inarcando le spalle, nascondendo il volto, ben sapendo di non poter sostenere la luce di quelle sconvolgenti apparizioni. A confermare il carattere niente affatto superiore, fuori di un ordine naturale, di queste ultime, ci stanno le pieghe agitate sia del lenzuolo da cui si libera il Cristo risorto, sia il gagliardetto, che è l’’unico segno di una sua misura sovrumana. Prima di Tiziano, solo Raffaello, nelle Stanze vaticane, aveva saputo essere così sciolto, convincente, “moderno”.

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