Da una quarantina d’anni trascorro le mie vacanze estive a Cortina d’Ampezzo, attratto dalle bellezze naturali del luogo, ma anche da un felice abbinamento con una valida presenza di gallerie d’arte, i Farsetti e Contini e Mucciaccia per il contemporaneo, Matteucci per l’Ottocento, a lungo però gravati dal culto dei maestri del Novecento, i vari Rosai, De Pisis, Sironi ecc., poi però decisi a qualche passo in avanti, per cui da Contini è comparsa una magnifica mostra di Christo, e ora si accende qualche multiplo di Plessi, soffocati però dal peso massimo di Botero o dai tetri gusci vuoti di Mitoraj. Farsetti poi, quest’anno, ospita addirittura un esponente della nobile ondata dei Writers newyorkesi, Toxic-One, scoperto assieme ai colleghi, un trentennio fa, dall’occhio acuto di Francesca Alinovi. Tra queste gallerie consolidate c’è pure quella degli eredi del celebre Hausammann, forse il vero fondatore di questo fortunato connubio cortinese tra arte e natura. Infatti, portiere all’Hotel Posta, epicentro di questo microcosmo, Hausammann ha collezionato capolavori, acquistandoli dagli artisti frequentatori dell’albergo, e lasciandoli in eredità ai suoi discendenti. Ora una nuora e due nipoti dirigono, sempre a Cortina, il centro più avanzato, esponendo fra l’altro il più noto dei Nuovi Futuristi, Marco Lodola. Ma soprattutto, con coraggiosa mossa del cavallo, dai nostri monti sono andati ad aprire una sede niente meno che a Miami, e guardandosi attorno oggi propongono una bella schiera di street artists, il che mi consente di proseguire in un certo discorso volto a segnalare la ricomparsa in forze, nel panorama attuale, di abili gestori, se non proprio del pennello, quanto meno della bomboletta spray, o di altre avanzate tecniche di colorazione appoggiate alle risorse delle nuove tecnologie. Il fenomeno storico dei Writers si è inflazionato, negando se stesso attraverso stanche e stereotipate ripetizioni divenute anonime e sbiadite. Peggio ancora se i graffitisti prendono le vie della figurazione, spesso retorica, tributaria di stanchi stilemi surrealisti. Ma se invece calcano le vie di un neo-informale, o di un Abstract, più che Expressionism, diciamo proprio Impressionism, allora ci siamo, aprono orizzonti abbastanza originali ed eccitanti. Se diamo un’occhiata al manipolo di autori che in questo momento si possono vedere alla Hausammann di Cortina, non dico che siano il meglio di quanto offre la scena odierna, né che io ne sia un approfondito conoscitore, questa incursione vale come assaggio temporaneo, come prelievo istologico per prendere atto di un fenomeno generale. Tra loro c’è un newyorkese che si firma Cope 2, e che per fortuna annulla le troppo note sagome delle lettere in un vivace intrico quasi di dripping festosamente multicolore. C’è il parigino Lokiss, e gli italiani, Raptuz, coi suoi listelli che tracciano come una fitta stuoia, sagomano lo spazio, lo popolano di architetture immaginarie, quasi alla maniera di un Vedova lucido e asciutto. Milano la fa da padrona anche con Rae Martini, con Willow, che parte da una allegra produzione di uova pasquali, o di bambolotti, di quelli che si danno come souvenirs, e che sono tra gli articoli di più tipico consumismo in chiave Pop, ma l’artista li sconfigge attraverso una loro moltiplicazione, come fosse una folla di bolle di sapone che brillano per un momento e poi scoppiano, si sfaldano. Il suo modello, ma è giusto che ce ne sia sempre uno cui ispirarsi, è il grande Keith Haring, infatti come l’ormai lontano capofila anche Willow va a iscrivere il suo tappeto di cellule impazzite sui fianchi di una motoretta o sulla tazza di un water. Come vengo dicendo, quello che conta in primo luogo è di sconfiggere la sterile lode del monocromo, dell’andare al minimo, del tendere a zero, cui tanti santoni della critica oggi si richiamano. Queste proposte potranno anche apparire eccessive, non ben bilanciate, troppo informi, ma almeno tendono a una nuova pienezza, che è il primo traguardo da raggiungere.