Domenica scorsa 28 aprile avevo preannunciato una mia visita che si sarebbe svolta nei giorni precedenti a New York per una mia partecipazione a un incontro al Center for Italian Modern Art (CIMA), su cui fornivo una specie di preventivo. Forse domenica prossima ne darò pure un consuntivo, ma intanto il primo impulso è di raccontare che cosa ho visto nella Grande Mela, seppure limitandomi a una visita ai luoghi consacrati dall’uso. Niente da dire sui due massimi MOMA e Metropolitan, che non deludono mai le aspettative, male invece il Guggenheim, semichiuso in attesa di non so quale evento, e pure il Whitney, ma con la giustificazione di essere in attesa della Biennale che avrebbe aperto qualche giorno dopo. L’averla mancata è stata senza dubbio una grave perdita nel mio giro d’ispezione. Erano aperti solo l’ultimo piano, con una mostra abbastanza scontata dei grandi estensori di bolle cromatiche di larga stazza, sul tipo dei Morris Louis e Kenneth Noland, tra cui però c’era anche un Frank Stella prima maniera, che sarà l’eroe di questa mia cronaca. Infatti me lo sono ritrovato con ben altro formato e superiore grinta quando ho compiuto l’inevitabile pellegrinaggio nelle gallerie di Chelsea, dove in genere ho constatato uno spettacolo abbastanza deprimente, di ritorno alla pittura ma in modi modesti, disimpegnati, quasi folclorici, con ammicchi verso esiti fiabeschi, da arte naif o giù di lì, insomma un tipico momento di stanca, di crisi, che coglie di tanto in tanto perfino il “caput mundi”, quale malgrado tutto continua ad essere New York. Con un’unica eccezione, data proprio da Stella, che presso la Galleria Boesky ha portato all’estremo limite l’esuberante espansione cui si è dato sul filo degli ultimi decenni. Nella rassegna storica al Whitney se ne stava stretto stretto, col suo reticolo geometrico, pur già riccamente policromo, ma del tutto racchiuso sul piano, proprio a costituire una stella, “nomen omen”. Poi si sa che in seguito è andato a distribuire le sue forme nello spazio, esattamente come farebbe una brava massaia che, prima, stende col mattarello la pasta sul tagliere in strati ridotti, poi li ritaglia con una rotella, quindi li dischiude, gli fa prendere aria, volume, spessore. Fuor di metafora, Stella è venuto ricavandone delle matasse sempre più in rilievo, libere di snodarsi nello spazio, di intrigarlo coi loro gonfiori, ma nel rispetto di una fattura a base pittorica. Poi dalla pasta cromatica è passato a materiali ben più plastici, il vetroresina, da cui ora ricava circonvoluzioni maestose, che scoppiano nello spazio come degli airbag, e pare quasi di udirne lo schiocco. Sembrano degli aerostati, che forse veleggerebbero liberi nello spazio, se a trattenerli non ci fossero dei robusti ancoraggi a strutture metalliche, incaricate di reggerli, perché nonostante il loro aspetto di nuvole in libertà credo che viceversa abbiano un notevole peso. D’altra parte le strutture metalliche soggiacenti mi pare che diano anche a quegli aerostati il bene di una possibile mobilità, così da poter scorrere nello spazio. Inoltre non è detto che assumano sempre una morfologia del gonfio, dello sfeoroidale. In altri casi si stringono, si allungano, come nastri, in ogni caso policromi, o addirittura come fuochi artificiali, però “fermati” quasi con colpo di bacchetta magica. Il fatto stesso di parlare per loro di gonfie nuvole o di nastri allungati e quasi tentacolari ne rivela pure l’appartenenza alla famiglia delle forme aniconiche, o diciamo pure, con termine antiquato e improprio, dedite all’astrazione. Col che esse ingaggiano un duello con le forme accentuatamente iconiche di cui è capace l’artista statunitense che oggi è forse l’unico a potergli essere opposto. Jeff Koons, ma con la differenza contenuta proprio in queste ultime parole. Se il primo, Stella, ci dà fettuccine fluenti, o frittelle, di quelle piene di vuoto al loro interno, l’altro arrostisce sul suo industrioso barbecue dei porcellini, magari d’india, o dei fiori e frutti esotici. Chi resta indietro, superato in questa gara agli estremi dei due massimi contendenti, al momento è Oldenburg, con le sue statue che sono rimaste, come voleva la stagione Pop, a volare troppo basso. Invano, nei suoi ultimi lavori, hanno tentato anch’esse di nobilitarsi, di assumere cadenze preziose e ornamentali. Ma Oldenburg, da valido interprete del mondo Pop, veniva dalle immagini del bisogno, del necessario, mentre i nostri due si librano incondizionati nell’attuale universo del superfluo, dell’eccessivo, sia che questo si esprima in paccottiglia da supermarket ispirata agli esiti più bizzarri del kitsch (Koons). o invece già si imbarchi per avventure spaziali, per paesaggi incantati quali forse appariranno all’umanità quando finalmente potrà avventurarsi in viaggi spaziali, e del resto già oggi è possibile godere della visione di fastosi spettacoli pirotecnici, di incantate aurore boreali.
Frank Stella. Recent Works, Marianne Boesky Gallery, fino al 22 giugno.