Pare destino di Simona Vinci alternare le prove positive con altre meno riuscite. Nella categoria delle prime, e senza andare troppo indietro, collocherei Starda provinciale tre, legata a una erranza libera e felicemente sconclusionata, o Parla mia paura, dove la parola è data proprio a una serie di reazioni istintive, suscitate dal timore di irruzioni esterne. Tra le prove “sbagliate” metterei Stana 414, opera votata a una reazione sentimentale un po’ troppo univoca e monocorde. Massimamente sbagliata, come mi è capitato di dire, La prima verità, viaggio tra gli orrori di un manicomio a cielo aperto, rintracciato tra le pieghe di qualche guida agli orrori umanitari. Non per niente questo romanzo ha ricevuto il Premio Camoiello, a mio avviso il peggiore fra tutti. E ora L’altra casa, altalena, doccia scozzese, tra brani in cui la Vinci dimostra le sue miglior virtù e altri invece fuori tono, quasi da espungere. Ma quali sono appunto le sue migliori capacità? Tanto per cominciare, la Vinci è autrice del presente, e delle vicende, tormenti, angosce, tentazioni nascenti dal corpo, in presa diretta. Qui infatti, finché a condurre la vicenda ci sono due donne in panni attuali, Maura e Ursula, le cose funzionano abbastanza bene. A dire il vero m devo subito smentire, dato che Ursula è prigioniera di un fosco passato vissuto in Russia, dove era stata il brutto anatroccolo, mantenuta per pietà in una famiglia che la privava di ogni conforto, dove anzi uno zio crudele aveva abusato di lei. Ma era intervenuta la vendetta in tipico stile vinciano, in quanto Ursula aveva frammentato una bottiglia spargendo i cocci nel latte dei conviventi, provocando in loro una disastrosa colica. Però, siamo sinceri, un’azione sadica come questa non ha età, la nostra protagonista l’avrebbe potuta replicare, per esempio per punire i maschi che la assediano da insopportabili intrusi. Ora è quasi la badante di Maura, anche lei col suo vampiro o sogno infranto, di cantante colpita da un male alle corde vocali. Comunque, l’aggirarsi nella casa che costituisce davvero l’oggetto continuamente presente del racconto dà luogo alle scene più convincenti. Degno di nota in particolare l‘imprigionamento in una cucina deserta che Ursula si procura involontariamente. C’è però l’altra casa, che alcuni protagonisti hanno frequentato ai tempi della guerra, ma questa funziona da miraggio alquanto remoto e non trova la forza dell’immediatezza dei sentimenti, delle sensazioni, delle incidenze corporali, che sono sempre il meglio della Nostra. Remoti anche e alquanto velleitari i riferimenti a un’abitazione misteriosa dove viveva una tale Giuseppina Pasqua, attraverso cui si risalirebbe addirittura a Verdi. La Vinci fa credere di aver rivisitato qualche storia di orrore legata ai misteri di vecchie abitazioni, ma questa di una fuga nel passato è una strada nel suo caso assai poco convincente. E dunque, accontentiamoci dei non pochi e non evanescenti riferimenti e contatti e sprazzi di vita che si consumano nell’unica casa davvero presente, e immanente, e convincente, lasciando che il vento si porti via tutte le altre possibili ombre e memorie.
Simona Vinci, L’altra casa, Einaudi stile libero, pp. 372, euro 20.