Letteratura

Silvana Grasso, salva “solo se c’è la Luna”

A Silvana Grasso mi lega una “lunga fedeltà”, espressa per l’ultima volta, se non ricordo male, quando è uscito “L’incantesimo della buffa”, 2011. Ora gliela confermo per l’appena pubblicato “Solo se c’è la Luna”. Del suo caso mi faccio un’arma contro certi suoi colleghi anch’essi legati a qualche regione del Sud. Se per lei si tratta di una Sicilia affocata e barocca, per Marcello Fois, Michela Murgia e Salvatore Niffoi si va invece in una Sardegna anch’essa depositaria di miti e ossessioni. Il torto di questo terzetto è di procedere per il lungo, di prendere il via con personaggi immersi in un passato ancestrale, ma portandoli poi, tappa dopo tappa, a navigare nelle nostre acque, il che produce l’effetto nocivo di una mancanza di omogeneità. Da una scrittura iniziale che si ispira appunto a motivi atavici, e ricalca la gloriosa narrativa meridionale dei tempi giusti, della stagione del verismo, si giunge invece attraverso passaggi successivi a bagnarsi in quello che, secondo il mio gergo, sarebbe un neo-neorealismo, immerso nello scenario attuale, con le sue meschinità, truffe, inganni. E’ un difetto in cui invece non incorre la Nostra, capace di adottare una modalità coerente, di adesione a un mondo siciliano visto a giusta distanza, evitando così che i fantasmi del progresso vengano a inquietarne le pagine. Ma, si dirà, non è questa la via inevitabile per consegnarsi mani e piedi legati all’inattualità, alla resurrezione di un neorealismo cui si stenterebbe ad accordare il beneficio di un secondo “neo”? La Grasso evita un rischio del genere perché scantona prontamente verso l’irrealtà, la favola, la leggenda riveduta e corretta. O per dirla in formula, dal pericolo di un realismo recidivo si svolta verso un realismo magico, che nel nostro Paese ha lunghe e gloriose radici, come dimostrerà un numero dell’”illuminista” di prossima uscita. Intendiamoci, non è che si sia in presenza di un abbandono totale di qualche radicamento in dati reali di costume, di atmosfera, questi ci sono tutti, ma prontamente corretti con rifacimenti nella chiave che si è detto. Per esempio, proprio in quest’ultimo nato domina una figura maschile improntata a una simile revisione che la purifica da ogni possibile caduta nello stereotipo. Il nome è solenne, Girolamo, e il destino abbastanza scontato. Come tanti suoi corregionali, la miseria lo ha costretto ad andarsene negli Stati Uniti, dove avviene la trasformazione del nome, ma non in Jerry, che sarebbe un cedere al mito del progresso, dell’adeguazione al codice anglosassone, bensì in una opportuna sintesi tra le due uscite, Gerri. Del resto, quando entra in scena, lo vediamo rriassumere subito la vecchia pelle isolana, anche se non manca di magnificare gli anni trascorsi a New York, dove si è fatto un buon gruzzolo e ha acquisito un “savoir faire” che ora agita contro l’indolenza degli isolani. Insomma, siamo in presenza di un perfetto connubio tra virtù antiche e nuove, manifestato anche nell’ambizione di cercarsi una moglie di buon livello, e che sia oltretutto una creatura “inutile”, a riscontro col suo efficientismo, infatti va a prendersi un soggetto perso nell’arte di effigiare statue e medagliette. Ma il tratto centrale del romanzo sta nella nascita della figlia, gravata del nome simbolico di Luna, e portatrice di una spaventosa malattia genetica per cui non può esporre la pelle ai raggi del sole, che la ustionerebbero seminandola di pustole e piaghe raccapriccianti. Gerri ha voluto crescere nella scala sociale? Eccolo punito, con una figlia simile a un fiore prezioso di serra, da tenere sempre al chiuso. Potremmo giocare sul titolo stesso del romanzo, ed applicare all’intera arte della Grasso la formula “solo se c’è la luna”, appunto a proteggerla nelle cadute di sapore neorealista. Quella malattia arcana, e diciamolo, pure, abbastanza inverosimile, è il biglietto di accesso al regno della magia, di una Alice che ha varcato per sempre lo specchio del misero verismo d’antan. Ma non basta, la fantasia della scrittrice ha sentito il bisogno di raddoppiare, cioè di porre al fianco di Luna un’altra creatura, simile e nello stesso tempo opposta. Un’esistenza così fragile e indifesa ha bisogno di assistenza continua, ma non di una badante prezzolata. E dunque il dinamico Gerri va a prendere una povera fanciulla, svenduta da una ragazza-madre, facendo di lei una sorta di sorella della figlia. Questa creatura parallela porta un nome equivoco, Gioiella, e tale è senza dubbio a livello fisico, di persona sana, temprata da povertà e fame ataviche, ma con un carattere aspro, diffidente nei confronti del mondo intero. Ecco insomma il formarsi di una coppia antitetica, Luna dalla vita precaria e notturna, ma invece di forti appetiti sessuali. Gioiella, dal canto suo, rassegnata a un destino di essere inferiore e di custode delegata, che le impedisce di amare, di avere una vita in proprio. Le due, quasi una Thelma e Louise in salsa agreste, procederanno tragicamente avvinte verso la morte. Una ulteriore virtù della nostra narratrice, oltre alle valide incursioni nel magico a livello di trama, sta anche nell’adozione di una forma di discorso indiretto libero. Non le si addice il tono dell’autore che giudica al di fuori della vicenda, farebbe fatica a giustificare queste incursioni nel magico, mentre i conti tornano se sono i protagonisti stessi a dire di sé con un linguaggio colmo di espressioni orali e dialettali, capace di andare oltre la pagina scritta. Infatti se si vuole apprezzare in pieno il valore della nostra narratrice bisogna sentirla leggere dal vivo la sua prosa, fino a sollevarla al livello di una vera e propria performance.
Silvana Grasso, Solo se c’è la Luna. Marsilio, pp. 222, euro 17.

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