Il 1523 è stato un anno infausto per molti artisti, infatti sono deceduti sia il Perugino sia il Signorelli. Peraltro il ben più giovane e altrimenti dotato Raffello era scomparso addirittura l’anno prima. A Signorelli si deve un’alta impesa, quella di aver anticipato Michelangelo nella selva sia di dannati che di eletti di cui ha riempito il Duomo di Orvieto, ma nulla da fare, egli si porta dietro le stimmate della sua generazione, la seconda, nel computo del Vasari, quella che è rimasta ben distante dalla terza maniera, ovvero dalla modernità, Basta un confronto con Michelangelo, che a dire il vero interviene su un simile tema assai più tardi, nella parete di fondo della Sistina, ma il Buonarroti sgrana i corpi, li fa parere come una discesa avventurosa di paracadutisti i cui corpi si sgranano, si separano, assumono ciascuno una propria individualità, Invece il Signorelli, come vuole il destino della sua generazione, li affolla, li fa aderire l’uno all’altro, neppure il proverbiale filo di lana avrebbe potuto separare quel tutto pieno. Era una generazione che, pur avendo una piena maestria a livello anatomico, manteneva una specie di terrore delle distanze, e quindi i corpi si stringevano a coorte, non ammettevano distacchi, cesure tra loro. Questo un tratto caratteristico, che poi ognuno di questi artisti è andato a giocare a modo suo, quindi se il coetaneo Perugino dirada le presenze, il suo omologo le rende compatte, con una prossimità quasi asfissiante. Questo un profilo caratteristico di quella generazione, che l’ha mantenuta lontana dal moderno, cui invece sono pervenuti sia Leonardo che Michelangelo, e beninteso il divino Raffaello.