Proseguo nel mio vanitoso esercizio di pronunciarmi a posteriori sulla cinquina dello Strega, in attesa di procedere allo stesso modo nei confronti dei selezionati al Campiello. La vittima della scorsa domenica è stata Elena Stancanelli, nel cui caso vale quasi il tipico “nomen omen”, opera stanca, scucita, non riscattata a sufficienza da qualche passo non privo di vigore. C’era di meglio, anche tra le voci femminili, da immettere nella cinquina, penso a Marina Mizzau e a una presenza ormai di lungo corso e di forte tenuta come Rossana Campo. Ora è la volta di Vittorio Sermonti e del suo “Se avessero”, Garzanti, e qui il gioco si fa impegnativo, mi chiedo infatti se addirittura non fosse stato il caso di dare a lui lo Strega di quest’anno, piuttosto che ad Albinati. Giudicando quest’ultimo in una recensione di prossima uscita sull’”Immaginazione”, mi sono lasciato travolgere, come tutti, dall’onda di piena delle sue più di mille pagine, senza dubbio scorrevoli e con pregi nel catturare da vicino l’attualità più incalzante e pruriginosa, ma non senza gravi scompensi interni, al fine di gonfiare in eccesso l’opera. Caso mai, il romanzo di Sermonti pecca per ragioni inverse, di una qualche monotonia, nel registrare quanto egli stesso definisce una “bildungsnovelle”, ovvero l’ opera di un “narrator narrato”, siamo cioè di fronte a un tipo di scrittura oggi dilagante, alla autonarrazione, che del resto molti riconoscimenti ha ottenuto, penso a Antonio Pennacchi e alla sua lunga epopea attorno alle paludi pontine e altro, che gli ha meritato lo Strega del 2010. E ci sono pure le smisurate cronistorie di Maurizio Maggiani, che si è addirittura auto-candidato a darci il “Romanzo della nazione”. In fondo, l’impresa di Sermonti non appare indegna di questi precedenti, e anzi possiede forse qualche marchingegno in più per evitare la monotonia del racconto piano e scorrevole. Come del resto è testimoniato dall’espressione ipotetica indicata dal titolo stesso, “se avessero”. Infatti, nel navigare tra le sue vicende personali, ma subito riportate anche in questo caso a un “romanzo della nazione”, Sermonti riesce a creare abili sospensioni, punti di svolta, cui ritorna più volte, senza lasciarseli alle spalle, e dunque la cronistoria dei nostri decenni, dalla liberazione in avanti, è percorsa di continuo, in su e in giù. La prima di queste sospensioni deriva dal fatto che, nei giorni successivi alla liberazione di Milano, tre partigiani si presentano alla casa del narratore con intenzioni ostili verso un suo fratello maggiore, sospettato, non a torto, di collusioni col passato regime. Infatti, militare nelle isole greche, aveva addirittura preferito aderire alle truppe tedesche per sdegnosa ripulsa verso il “tradimento” di Badoglio, ma poi, genio del doppio gioco, era pure riuscito negli ultimi giorni a farsi accogliere nelle file della resistenza. Questa è un po’ anche la strategia del narratore, che sembra sempre tenersi varie carte nella manica, pronto a giocarle in un senso o nell’altro, il che gli consente anche di acquisire apprezzabili doti di comicità, come quando, tanto tempo dopo, si ripresenta alla sua porta, di persona ormai adulta, una squadra di agenti della Digos che sospettano in lui il sovversivo, l’affiliato alle brigate rosse. Infatti si sono uditi suoni in lingua slava uscire dalla sua abitazione, ma era solo che stava ascoltando dischi di musica russa. E così via, la vita è tutta una serie di inganni, di equivoci, di dati contradditori, una tela ingarbugliata che con pazienza, o invece con impazienza, il Nostro tenta di districare. Magari gli manca la genialità di un Gadda, o anche solo di un Busi, però il tessuto, per merito di questi sapienti andirivieni, è pur sempre vivace, e non fa sconti a nessuno, per esempio esemplare è la cattiveria, la spietata inquisizione con cui il narratore indaga sui torti della madre nei suoi confronti, lei che non lo ha allattato, e forse neppure mai baciato o accarezzato. Naturalmente, non so se questo risponde a un dato reale, si sa che l’autonarrazione spesso è ingannevole. Fra l’altro, il narratore si concede parecchi tra fratelli e sorelle, a cominciare da quel genio di condotta ambigua che abbiamo conosciuto in apertura e al quale siamo sempre ricondotti. La tela insomma è complessa, fatta di tanti fili che la solcano, e che soprattutto appaiono sempre utilmente percorribili in avanti e indietro, secondo il proverbio per cui “fare e disfare è tutto un lavorare”.
Vittorio Sermonti, Se avessero, Garzanti, pp. 210, euro 18.