Antonio Scurati è narratore polimorfo, alla maniera di Baricco e anche dell’appena scomparsa Vassalli, quindi mi riesce difficile, come per loro, rivolgergli un discorso unitario, nell’analisi come nell’apprezzamento, mi vedo costretto a valutare di volta in volta le sue singole uscite. Una valutazione che, da parte mi, è stata molto alta quando ci diede, nel 2005, “Il sopravvissuto”, la sua opera che forse resta tuttora in cima alle mie preferenze, tanto da farmi temere che egli si iscrivesse nella categoria di quelli che fanno centro al loro primo apparire, poi appannandosi e divenendo meno sicuri nelle mosse. Infatti ho bocciato certe sue prove successive che hanno abbandonato la scena dell’attualità tuffandosi nella ricostruzione di nostre vicende storiche, le Cinque giornate di Milano, un caso simile alla peste manzoniana, una truculenta vicenda di fantascienza in una Venezia di fine secolo, casi da iscriversi nella categoria di una Italian New Epic, ma condotta con mano pesante, ben lungi dalla leggerezza che rende così gradevoli i pastiches di Calvino. Poi ancora Scurati è approdato alla cosiddetta autonarrazione, con “Il padre infedele”, di appena due anni fa, non temendo di sfidare il rischio di varcare i confini della creazione romanzesca per entrare in quelli della saggistica. Cosa che si può ripetere per l’attuale “Il tempo migliore della nostra vita”, dove forse quei confini pesano più che in precedenza, o per meglio dire, il testo pare rispondere a due padroni diversi, seppure praticati con indubbia maestria e meritevoli di consenso, ma direi che la fusione non avviene, resta ipotetica, condotta sulla carta, e non nella misura auspicata dall’autore. Se si vuole, è il tipico contrasto tra la categoria della storia, tributaria del vero, come vuole il suo stesso etimo, che richiama all’obbligo di una fedeltà documentaria, di un “vedere”, se non con gli occhi, almeno con una acribia filologica dedicata ai documenti, e invece il verosimile proprio della creazione poetica, che richiede a chi lo segue il compito di una invenzione radicale di casi umani dal nulla. La componente “storica” di quest’opera sta in una ricostruzione meticolosa della biografia di Leone Ginzburg, seguito da vicino nella sua crescita in una Torino “tra le due guerre”, dove si forma sia alla cultura letteraria, da raffinato filologo, contribuendo con ruolo primario alla nascita della casa editrice Giulio Einaudi, sia in una coraggiosa attività antifascista. I casi sull’uno e sull’altro fronte sono seguiti con adesione perfetta, e suscitano la commozione in chi li legge, io stesso ho versato qualche lacrima di fronte a tanto eroismo, dove fra l’altro la parte pubblica viene fusa davvero con quella privata, dove è fondamentale l’incontro con Natalia, che a riconoscimento di un debito morale ed affettivo inestinguibili vorrà sempre esibire il cognome del primo sposo, anche quando passerà a nuove nozze. Le pagine dedicate a questa componente si leggono appunto con adesione, con commozione, anche per la puntigliosità con cui Scurati non fa sconti, infatti non mancano certi accenni polemici, le documentazioni riguardanti un Einaudi collerico, un Pavese troppo insicuro di sé, qualche “tradimento dei chierici” che, a differenza dell’adamantino Leone, vengono a patti con l’esecrando regime fascista. Insomma, se si valuta la ricostruzione di un personaggio storico, dieci con lode, tutto ben condotto, e in definitiva appare giusto che il libro inalberi come titolo un “Tempo migliore della nostra vita”, appropriandosi di una espressione trovata in Natalia Ginzburg, a siglare quegli anni di sofferenze ma illuminate da grandi ideali.
Tuttavia Scurati è ben consapevole di dover rispettare anche l’altro idolo, il verosimile, cui deve sacrificare se vuole malgrado tutto rimanere nell’area di una creazione romanzesca, e allora scopre, con nostro affascinato consenso, che il fare la storia della sua anonima famiglia, risalendo per li rami fino ad avi lontani, entrando per così dire in cronaca diretta a partire dai nonni paterni e materni per poi applicare sempre più scrupolosamente una lente di ingrandimento a figli e nipoti, corrisponde perfettamente a un simile scopo. Infatti i suoi parenti sono gente qualunque, “come noi”, ne viene quasi l’impulso a condurre, ciascuno per suo conto, una impresa simile. Anch’io, sulla sua scorta, ci sto facendo un pensierino. Infatti proprio il carattere “qualunque” secondo cui tutte queste creature risultano destinate a scomparire nel silenzio e nell’oblio, se non ci fosse quel generoso e dotato rampollo che si può permettere di riscoprirle, corrisponde a una folla di figure similari che ognuno di noi potrebbe rintracciare alle sue spalle. Chi mai potrà andare a verificare l’autenticità delle ricostruzioni offerte diligentemente da Scurati? In altre parole, il “vero” del suo albo genealogico viene a identificarsi con una ricostruzione verosimile dei nostri anni passati, sfila davanti ai nostri occhi una storia d’Italia vissuta dal basso, da poveri protagonisti che hanno fatto del loro meglio per districarsi dai guai, dalle penurie seguite a ben due guerre mondiali, per procurare il pane ai loro figli, per avviarli a un lavoro. Anche altri narratori di recente hanno preso questa via, ma cadendo in un errore che non ho mancato di bacchettare, soprattutto dalle pagine dell’”Immaginazione”. Se penso alle prove pur lodate della Murgia, o di Fois, o di Niffoi, il loro torto è stato di comportarsi come Giamburrasca. Quell’eroe della nostra adolescenza all’atto di stendere il suo Giornalino, diffidando delle proprie doti di narratore in erba, va a copiare le pagine delle sorelle adulte. A loro insomma è successo di ispirarsi alle trame veriste della Deledda o di qualche altro maestro del passato, così mancando un obiettivo di autenticità, di forza dei fatti. Invece la testimonianza offertaci da Scurati è limpida, diretta, procede spedita, proprio perché del tutto sganciata da autorevoli modelli preesistenti. Però è anche vero che a questo modo viene meno l’ancoraggio tra le due componenti del suo esercizio, da una parte svettano le vicende esemplari di Ginzburg e di tutto il contesto in cui egli si è mosso con tanto coraggio, dall’altra restano i comportamenti spesso confusi, tutt’altro che esemplari dei poveri parenti di cui l’autore, ma con tanto amore e adesione, va a rintracciare i fatti, non particolarmente nobili ma improntati alla più schietta volontà di vivere, anzi di sopravvivere nel grande mare in tempesta della storia, di cui non sono in alcun modo protagonisti ma soltanto vittime passive. Insomma, due tipi di commozione, di cui una da mettere sul conto della realtà storica e dei suoi eroi sublimi, l’altra di una folla di piccoli personaggi, di cui è opportuno che si faccia carico il convoglio generoso della narrativa. Al lettore il diritto di scegliere a quale tra le due commozioni si voglia abbandonare, ma la fusione, la mutua giustificazione, questa non avviene.
Antonio Scurati, Il tempo migliore della nostra vita, Bompiani, pp. 267, euro 18.