Ho sul tavolo i romanzi di Gianrico Carofiglio, “L’estate fredda”, e di Roberto Saviano, “La paranza dei bambini”, entrambi dedicati a narrare vicende legate alla malavita. Sarà per me un piacere esaminarli in sequenza, cominciando con quello di Saviano, cui rivolgo un convinto “pollice verso”, per usare la terminologia di cui mi valgo in recensioni più ufficiali di queste, in quanto affidate a una rivista che esce a stampa, “l’immaginazione”. E là vi avevo accolto e giudicato pure la prima volta di Saviano, il “Gomorra” che gli ha aperto la via a un successo travolgente. Però già in quella prima comparsa storcevo alquanto la bocca davanti alla statura di carattere sociale o morale assunta dal personaggio, che mi pareva furbescamente intento a darsi un’aura di martirio rilanciando temi e miti relativi alla camorra che tutti conosciamo a memoria. Manifestavo da subito il mio scetticismo che quelle sue testimonianze fossero tali da procurargli davvero la persecuzione e un proposito di vendetta da parte di quella che non per nulla si chiama “malavita organizzata”, in quanto non cede a impulsi immediati di odio e di risentimento, non cura affatto la propria immagine, che sa bene essere del tutto condannata. Gli interventi punitivi, le uccisioni, vanno a colpire chi rechi danni reali di ordine economico, chi cerchi di portar via fette di mercato, o faccia il delatore, o tenti di mettersi in proprio. Cose da cui ovviamente Saviano è del tutto lontano. Però, dichiarata la mia perplessità su un autore avviato a divenire icona sacra e intoccabile, gli concedevo qualche merito apprezzabile, in nome di una certa vicinanza al vero, cioè a una concretezza “storica” dei casi riportati, ricordando nell’occasione che il termine di “storia” viene dalla radice greca “id”, legata al vedere, possibilmente coi propri occhi. In fin de conti, a quella prima uscita si aveva proprio l’impressione che, andando in giro con un mezzo veloce, l’autore avesse davvero colto in flagrante i primi passi sulla via della delinquenza compiuti da criminali in erba. Ora, dall’alto del prestigio accumulato fino a proporzioni incredibili, Saviano ritorna sui propri passi, ma mi pare che metta da parte il “vedere” coi propri occhi. Ormai si sente un “mammasantissima” cui tutto è dovuto, e dunque conviene rincarare la dose. Questa “paranza”, questa leva di ragazzini decisi a entrare in campo, viene sollevata a proporzioni epiche, gonfiate, parossistiche. Dal vero non si scivola verso il verosimile, che sarebbe una via lecita, e forse obbligata, bensì si giunge all’inverosimile di storie truccate, fatte su misura per raggiungere il sensazionale. Come dire che il nostro santone non lavora più per una denuncia motivata, su fatti reali, ma insegue l’attrazione di una vicenda pronta per il cinema, o per un serial televisivo, come del resto è già accaduto allo stesso “Gomorra”, ma fin lì, mi sembra, quasi in misura preterintenzionale rispetto all’autore. Ora invece è lui stesso che “ci dà dentro”, a gonfiare in eccesso. Niente è abbastanza grande per questa “paranza”, per questa “frittura”di ragazzini imberbi che passano dalle stanze e dalle aule dove se ne stanno apparentemente agli ordini dei genitori e dei maestri, fino a concepire una sequela di delitti, aggressioni, uccisioni via via maggiori e più intemerate. E’ un iter seguito a suo tempo da Entico Brizzi quando ha scritto “Bastogne”, ma senza con ciò pretendere nessuna onorificenza al merito civile, e del resto subito persuaso che era sterile persistere in quella via di orrori a ripetizione. Alla testa di tutto c’è un capobanda, Nicholas, che proprio come un Giamburrasca del crimine una ne fa e cento ne pensa, non temendo di affondare nel ridicolo per talune soluzioni. Straordinaria, per la caduta nel comico più schietto, è la soluzione escogitata da Nicholas per colpire un presunto traditore, che starebbe nell’ obbligarlo a portare nel covo la sorella costringndola a fare un pompino a tutti gli addetti dell’allegra brigata. Magari queste storie si leggono con piacere e divertimento, ma ci scappa un commento inevitabile, “non è una cosa seria”, o quanto meno siamo lontani dalla testimonianza, dalla denuncia pertinente e motivata. Le ragioni del vero si allontanano, o tentano di rientrare dalla finestra. richiamate dalla pretesa di far parlare i membri della “paranza” con le espressioni del dialetto. Ma per questo verso Saviano regredisce al bilinguismo di cui aveva dato prova Pasolini ai tempi dei “Ragazzi di vita”. Naturalmente lui, l’autore, tenta di corroborare il suo ruolo di guida spirituale avvalendosi di un linguaggio corretto, ma intanto mette in scena attorno a sé un inferno compiaciuto, di maniera, nei fatti e nelle espressioni dialettali, magari ispirandosi alla durezza di un regista cinematografico come Tarantino. Solo che, mentre quest’ultimo ci dà l’impressione di fare sul serio, il suo imitatore induce i suoi personaggi a gonfiare i muscoli, ad alzare la voce in modi forzati e artificiosi.
Roberto Saviano, “La paranza dei bambini”, Feltrinelli, pp. 347, euro 18,50.