Che Bologna sia stata davvero negli anni ‘50 e oltre una capitale dell’Informale, lo dice un vitale complemento fornito dalla attigua Imola, dove sono emersi, ed hanno combattuto in una emulazione ad armi pari, due artisti nati a non molta distanza l’uno dall’altro, Andrea Raccagni e Germano Sartelli, rispettivamente 1921-2005 e 1925-2014. I due si sono divisi il compito di dotare la stagione informale di un rilievo plastico, cui invece erano estranei i campioni del capoluogo, ovvero gli Ultimi naturalistiveri e propri, per dirla con Arcangeli, tra i quali si sono avuti pochi episodi di invasione dello spazio (Moreni, Bendini), ma in modi sporadici e non troppo convinti. Invece i due di Imola furono a modo loro seguaci di Burri nell’adottare materiali eterocliti, spesso in libera uscita fuori dallo spazio del quadro. Ed ebbero anche una distinta tifoseria, per esempio il grande Momi e io stesso fummo dalla parte di Raccagni, mentre Sartelli, con l’appoggio di un altro longhiano, Andrea Emiliani, è stato adottato dalla Galleria De’ Foscherari. Era già prevista una sua ampia mostra nel bello spazio ai piani superiori della Chiesa della Vita, ma l’allontanamento di Roversi Monaco dalla guida di Genus Bononiae, e la morte del suo collaboratore destinato a dirigere quello spazio hanno cancellato questa possibilità, Rimedia ora la Foscherari ospitando in due puntate il suo beniamino Sartelli, su cui mi voglio intrattenere, anche cercando di districare i due casi dall’abbraccio spinoso che in vita li aveva congiunti. Raccagni procedeva, si potrebbe dire, con uno stile rotondeggiante, avvolgendo i suoi corpi in una rotazione quasi di sapore astrale, e dimostrava anche una ricchezza di mosse, addirittura dividendo la sua produzione in due serie, una delle quali destinata a infuriare, ad aggredire lo spazio, l’altra invece rivolta al tentativo di darsi un ordine quasi geometrico. Sartelli da parte sua, in questo più vicino a Burri, procede come a toppe, a fazzoletti materici non particolarmente vivaci nelle tinte, anzi, improntati a un sinfonia di colori spenti, che si assiepano sulle pareti, quasi forandole, quasi aprendo in loro dei pertugi. Da una sua mostra, insomma, come quella ora in atto alla Foscherari, proviene una sinfonia di tinte basse, smorzate, come reduci da un incendio, o da qualche disastro cosmico, con accurato prelievo di quanto ne resta, dopo la fiammata. Quella stessa fiammata che invece prorompe nelle opere del rivale Raccagni, ma diciamo pure che a questo modo i due forniscono un perfetto complemento a quell’ormai lontano momento di gloria sviluppatosi nell’area metropolitana bolognese. Sarebbe ora di pensare a musei permanenti dedicati a entrambi, pur nelle loro vistose differenze, e anzi proprio a illustrazione di queste due vie così diverse di andare a sondare i misteri della materia.