Il carattere privato di questi miei appunti mi consente di parlare di una mostra anche oltre i limiti della sua durata, il che non sarebbe consentito in recensioni su organi pubblici, come “L’unità” su cui compaio ogni domenica, i cui articoli dovrebbero permettere ai lettori di andare a visitare quanto vi viene esaminato. Sono dunque ben lieto di rimediare a questo disguido nei tempi occupandomi ora in ritardo della rassegna monografica che la Galleria veronese dello Scudo ha dedicato nei mesi scorsi a Antonio Sanfilippo, con ampio catalogo a cura di Fabrizio D’Amico e Francesco Tedeschi. Sanfilippo ha avuto contro di lui, prima di tutto, il guaio di un’esistenza troppo breve (1923-1980), a differenza della compagna e sodale delle loro esperienze di allora, Carla Accardi, che invece ha potuto prolungare quegli esperimenti, dar loro un giusto e convincente svolgimento: cosa che avrebbe potuto fare anche Sanfilippo, ma non lo sapremo mai, è l’interrogativo cruciale che si associa ad ogni carriera artistica troppo presto spezzata, come nel caso massimo di Umberto Boccioni. Un infortunio subordinato del nostro artista, forse dipendente dal non essere già stato a Roma al momento buono, fu di non venire incluso nel Gruppo degli Otto, come invece lo abilitavano in pieno i dipinti da lui eseguiti già a partire dal 1951, quando praticava un astratto-concreto assai mosso e dinamico, allo stesso modo dei suoi due pressoché coetanei Mattia Moreni e Emilio Vedova. Essi poterono entrare in quel sodalizio, e ne trassero tutti i possibili vantaggi, lui invece, assieme alla Accardi, dovette procedere per proprio conto. Eppure, come i loro, assai ingegnosi erano gli incastri di forme che sapeva impaginare, in quei primi anni ’50, anzi, c’era già in lui un di più di movimentismo, ovvero le sagome venivano come stagliuzzate, entravano per così dire in fibrillazione, preannunciando l’arrivo ormai prossimo dell’Informale, di cui egli scelse una delle branche più legittime e autorizzate, quella di specie “segnica”, in quanto proprio i listelli, le lamelle cui era giunto nello sviluppo del codice astratto-concreto, assottigliandosi ulteriormente, divenivano i tracciati filiformi di una specie di scrittura, non alfabetica, ma pronta a subire il fascino di sistemi grafici più esotici. Non si era lontani dagli ideogrammi estremo-orientali che da sempre erano stati il terreno di caccia di uno dei grandi protagonisti statunitensi di quella stagione, Mark Tobey, e dunque si poteva parlare di un sistema grafico decisamente “autre”, che avrebbe potuto essere accolto entro la schiera delle grandi presenze internazionali reclutate da Michel Tapié. Per stare a termini di riferimento di casa nostra, Sanfilippo sceglieva un suo percorso mediano tra un eccesso di impoverimento dei segni come quello professato da Giuseppe Capogrossi, artista cui sono sempre stato restio a riconoscergli il posto nell’olimpo di quegli anni quale invece gli venne decretato con troppa condiscendenza. La sua era una araldica schematica, più degna di un cartellonismo pubblicitario che di un esito propriamente artistico. All’estremo opposto avevamo un eccesso di assottigliamento del segno da parte di un artista come Emilio Scanavino, con caduta in un esile grafismo-calligrafismo. Mentre in Sanfilippo il segno perdeva presto e volentieri la sua individualità, ma per effetto di una generosità di fondo, in quanto si dava a moltiplicarsi, a entrare in simbiosi con i vicini di banco fino a creare delle nebulose, dei grovigli, dei polipai, e dunque ne nasceva davvero un esito di Informale pienamente raggiunto. I due bravi conduttori di questo studio monografico citano come giusto riferimento il caso del francese Serpan, un altro in cui il grafismo si fonde, fa “tache”, mentre, a voler insistere nell’indicare delle differenze, questo modo di portare a fusione la popolazione dei segni nulla ha da spartire con i tracciati grafici più lenti e strascicati di Hartung e di Soulage, o con le vibranti stoccate di Mathieu. Poi, la cesura, il silenzio, e dunque non sappiamo quali movimenti evolutivi avrebbero subito quelle matasse generose, opportunamente arruffate. La compagna, per qualche tempo nella vita e da sempre nell’arte, Carla Accardi, ebbe la possibilità di procedere a sapienti variazioni, rallentando quei nodi aggrovigliati, scandendoli in un regime di separazione, e anche riversandoli su supporti e materiali diversi, dando vita, insomma, a una brillante e sempre rinnovata casistica, mentre Sanfilippo è rimasto bloccato a quei suoi generosi cespugli, a quei branchi di semenza ittica pescati nel profondo del mare e della vita.