Arte

Sandro Martini, vele al vento

Ricevo il “Catalogue raisonné” di tutta l’opera di Sandro Martini (1941), dai suoi inizi sul finire dei ’50 a tutt’oggi, molto ben fatto, il che mi induce a svolgere qualche riflessione su come l’artista è entrato, e anche in misura notevole, nel mio orizzonte critico. Nei suoi vent’anni d’età egli era ancora tributario della precedente stagione informale, visibile per un pittoricismo insistito, perfino oltranzista. In definitiva, i suoi “quadri”, che tali erano ancora per il momento, risultavano addirittura ingolfati di minute presenze policrome, come coriandoli accumulati, o interni di “poubelles” rovesciati in voluto disordine. O si pensi anche all’esito di quelle macchine tranciatrici con cui si riducono a striscioline dei fogli di carta considerati inutili. Ma proprio tanta compressione rendeva inevitabile la partenza di un processo di segno opposto, di fuoriuscita da quei recinti troppo stretti, a invadere lo spazio-ambiente. Infatti, dopo averlo già presentato in una mostra romana del ’73, doverosamente riportata nell’antologia critica in coda al volume, non ho esitato a convocarlo a una mostra che sembrava proprio fatta apposta per registrare il suo caso, assieme ad altri simili. E’ stata “Pittura ambiente”, che ho realizzato al Palazzo Reale di Milano nel ’79, con accanto Francesca Alinoivi, già piena di entusiasmo e di intuito. Di questa rassegna ho parlato poco fa ricordando un altro dei partecipanti di allora, Richard Tuttle, però molto diverso da Martini, anzi, addirittura opposto, dato che l’artista statunitense, allora come oggi, si caratterizza per un movimento centripeto, i suoi splendidi frammenti si raccolgono in se stessi, occupando uno spazio ben ridotto sulla parete, ma proprio per questo andando a brillarvi di luce intensa. Invece Martini è dedito a una incontenibile esplosione, determinata dall’eccesso di pienezza con cui si era concentrato nelle prove iniziali. Ovvero, da quella semenza, da quel vivaio, come di orto brulicante, era inevitabile che spuntassero fuori tralci, virgulti, pedicelli, pronti a invadere lo spazio circostante. Ma forse la similitudine vegetale non è molto adatta, al suo caso, meglio rivolgersi a una buona e solida artigianalità del tempo antico, quale si incontra nel mondo della navigazione. Quei suoi tralci in uscita erano piuttosto le corde, le sartie di qualche barca da pesca, con l’inevitabile corollario che si tendevano nello spazio per reggere vele. E risultano anche due corollari successivi, sempre nel rispetto della similitudine marinara. Quelle vele dovevano avere un carattere grezzo, di tela grossa, trattata con colori smaglianti ma nello stesso tempo tenaci. Nulla a che fare con una “pittura” concepita come un velo cromatico disteso in tutta purezza. In quel caso si celebrava l’unione del colore con la materia, come avviene davvero in tutto il mondo della navigazione, dove i colori devono essere resistenti alle intemperie, reggere all’usura del “fuori”, al contatto bruciante con l’atmosfera. Dall’ambito delle vele navali è poi facile venire a parlare di qualcosa di equivalente, ma legato alla terra, come sarebbero le tende da campo. Conta comunque insistere soprattutto sulla nozione di superfici tese per sbarrare, per sfidare le intemperie, per stabilire delle dighe contro il vento. Se si vuole, per questa strada si può giungere alle esperienze di Christo, anche se condotte, nel caso di Martini, in maniera volutamente più rozza e artigianale. E ci può anche essere un incontro con il movimento francese detto del Supports-Surface, che fu il modo più specifico con cui i nostri cugini d’oltralpe tentarono di collegarsi allo spirito del ’68. Del resto, l’intera rassegna “Pittura ambiente” voleva proprio celebrare la possibilità di una convivenza. Sembrava che il’68 avesse negato la possibilità di continuare a dipingere, incitando a buttare via il pennello, la tavolozza, per andare a occupare lo spazio con strumenti di pura tecnologia, tubi al neon, raggi laser. Si pensi a Merz, Zorio, Calzolari… Però anche loro, proprio a partire dalla metà dei ’70, avevano conosciuto un movimento di flessione, di ritorno alla pittura. E dunque, appariva del tutto legittimo che artisti come Martini, senza lasciar cadere la pittura, si cimentassero ugualmente nella conquista dell’ambiente. Del resto in quel momento il nostro Sandro non era solo, infatti la mostra poteva raccogliere le esperienze, tanto simili alle sue, di Marco Gastini, Luciano Bartolini, Enzo Esposito. E ci provò anche Claudio Olivieri, che sminuzzò le sue stesure monocrome ricavandone dei ritagli da appendere come a tante stampelle, al seguito dell’esempio fornito dai “Mobiles” di Calder, salvo poi a rientrare nella pratica di stesure compatte, bidimensionali. Invece Martini ha insistito nelle sue fuoriuscite sistematiche, sempre più invasive, e anche ingegnose nel montare aeree edicole, pronte a sfidare gli agenti atmosferici. Non per nulla una delle sue serie più recenti prende il titolo di “Cage”, si tratta infatti di gabbie esili, ma tenaci nelle giunture flessibili. Magari entrano in gioco anche complementi di specie sonora, forse quelle strutture agili, sottili, quelle arpe millimetriche ronzano, emettono qualche brusio, tanto da meritare il titolo di “Risonanze”. Inoltre, il tratto dominante di tutta questa ampia produzione, è la tenacia, l’ostinazione con cui Martini è venuto approntando le sue tante varianti, fino a portare il connotato della “quantità”, questo infatti il titolo di una numerosa famiglia di opere recenti, a prevalere sulla “qualità”. Ma in definitiva quello che conta è il perfetto incrocio tra le due tendenze, di una pittura che non rinuncia a intensità, smalto, brillantezza, e nello stesso tempo coniuga questi aspetto immateriali con un’invasione quanto mai materiale dello spazio.
Sandro Martini, Catalogue raisonné, a cura di Luigi Sansone, Postmedia books.

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