Quando esce un romanzo di Salman Rushdie, mi precipito a comprarlo e a divorarlo. Mi erano sfuggite le sue prime apparizioni, ma poi ero stato raggiunto dal clamore di scandalo e di zolfo con cui si erano presentati, nel 1988, i suoi “Versi satanici”. Ricordo che avevo letto il libro in un lungo volo da Toronto a casa, con l’avvertenza di nascondere la sopraccoperta con relativo titolo, nella paura che qualche compagno di viaggio volesse applicare anche a me la condanna sancita contro quell’opera. Poi, in tutta tranquillità, mi sono letto, e ho commentato in tono positivo, i successivi “L’ultimo sospiro del Moro”, “L’incantatrice di Firenze”, “La caduta dei Golden”, si vadano a rintracciare i miei entusiastici verdetti stesi con altrettanti “pollici recti” sull’”Immaginazione”, o per le vie brevi su questo stesso blog. In sostanza, mi sembrerebbe giusto che in lui si avvisti il logico candidato a un qualche prossimo Nobel della letteratura, magari seguito o preceduto a ruota dal giapponese Murakami, di cui mi occuperò la prossima volta, o dal re degli effetti speciali, Stephen King. Ora eccomi davanti al “Quichotte”, che con omaggio a noi rivolto Rushdie ammette che il modo migliore per indicare questo indimenticabile personaggio sarebbe proprio, per il suono, l’italico Chisciotte. L’idea di base è giustissima, in quanto l’autore, ormai apolide di lusso, pronto a mescolare tra loro tutte le principali lingue e culture del mondo, ravvisa una omologia di situazioni tra la creatura di Cervantes e una sua possibile reviviscenza nei nostri tempi. Don Chisciotte era ossessionato da una produzione letteraria dei suo tempi, scesa ormai a un basso livello, noi diremmo di spazzatura, consistente nell’infinito propagarsi dei vari cicli cavallereschi. Oggi a quella invasione dilagante corrisponde l’ugualmente infinita serie di prodotti televisivi, gialli dozzinali, messaggi pubblicitari, spettacoli edonistici e di consumo. Io stesso, nei miei solitari sfoghi, ho auspicato che si possa levare qualche robusto narratore a contrastare la selva innumerevole dei nostri giallisti o raffazzonatori di storie di coppie più o meno aperte e pronte ad amori multipli. Forse un Busi, un Cavazzoni? Ma intanto, senza dubbio, ecco candidarsi a un ruolo del genere il Quichotte del nostro autore. Ed è pure giusto che la Dulcinea del Toboso cui sacrificare, sia la diva ultra-Pop, di nome Salma, in definitiva prigioniera dei suoi riti e miti, della sua dilagante notorietà. Il Chisciotte di nuovo conio vuole andare a riscattarla dal suo ruolo effervescente, ma in definitiva miserevole. Giusta impostazione, cui però Rushdie infligge strane deroghe o varianti non propizie, a cominciare dalla scelta del numero due dell’epopea, Sancho Panza. Come si sa, il duo cervantino è perfetto, nella dialettica dei ruoli, il volare alto, ma nei cieli della pazzia, del padrone, il volare basso dello scudiero d’accatto, impastato di lievito terreno. Invece, chissà perché, Rushdie non va alla ricerca di una figura corrispondente nel nostro mondo, ma dota il suo eroe di una creatura in definitiva evanescente, in quanto prodotta proprio da quei mezzi virtuali, informatici, inconsistenti che pure il protagonista dovrebbe combattere. Diciamo che in genere un rischio sempre in agguato sul nostro scrittore sta in una irrefrenabile bulimia, egli mette troppa carne al fuoco, che poi finisce per non essere carne ma materia troppo sfuggente, troppo cerebrale, tirata per i capelli. Trovo per esempio che sia inutile, fuorviante, provvedere il romanzo di una pesante cornice dove si confessa un autore, a sua volta scavalcato da qualche ulteriore apparizione. Insomma, Rushdie dovrebbe resistere alla tentazione di parlarci, per dirla con un noto motto latino, “de omnibus rebus et quibusdam aliis”. Mi capiterà di dire che lo stesso pericolo aleggia pure sulle laboriose composizioni di Murakami. Mentre ovviamente il romanzo riprende a scorrere nel modo migliore quando Quichotte, nella sua impresa liberatoria, marcia verso la tappa finale, verso la dama da riscattare, e allora ci sono tanti brani di tessuto concreto prelevati dall’infinito corpo degli USA che ci vengono serviti, così come un titolo di merito della grandezza del regista Hitchcock sta nell’essere andato, ai suoi tempi, alla scoperta di squarci autentici e ignoti di vita statunitense. Purtroppo la tentazione digressiva, particolarmente in quest’opera del Nostro, è sempre in agguato. Per un verso questo è un segno opportuno, vantaggioso di polifonia creativa, per un altro però allontana da un cammino che dovrebbe mantenere una sua direzione. Al limite, è la stessa motivazione di partenza dell’ eroe rivisitato a smarrirsi per strada, nella serie infinita di “pulcherrimae ambages”. Troppa grazia Sant’Antonio, forse, come si faceva un tempo nelle edizioni per l’infanzia, ci vorrebbe l’intervento di un riduttore, disposto ad applicare qualche opportuna sforbiciata su tanta abbondanza di fronde, qualche volta soffocanti.
Salman Rushdie, Quichotte, Mondadori, pp. 447, euro 22.