Ricevo da Paolo Ruggiero un suo “romanzo”, “La grande stagione”. Di lui non so molto, tranne che era accanto a me, come mi ricorda, in una edizione di RicercaBO, senza però essere stato invitato a leggere un suo brano, cosa che spero voglia fare alla prossima occasione. Ho messo tra virgolette il termine di “romanzo”, tanto risulta inadeguato per l’opera di Ruggiero, mentre gli risulta assai più propria quella, oggi dilagante, di “autofiction”, o di “autonarrazione”. Andando indietro nella storia, viene quasi fatto di ricordare che in passato, accanto alle prove narrative, o alle tragicommedie, esistevano pure i “Chronicle Plays”, in cui eccellevano grandi autori come Shakespeare e Defoe, Oppure, più modestamente, parliamo di un andamento a struttura diaristica, come succede in quest’opera, scandita secondo il succedersi dei mesi in cui il protagonista, Livio, riversa quasi ad horas le sue private vicende, e ci sarebbe da meravigliarsi se tutto questo non fosse molto vicino all’esperienza dell’autore in persona. Che a un bolognese come me offre il piacere di svolgersi per gran parte nelle vie, vicoli, piazzette, angiporti della città felsinea, in cui Livio si aggira sia per ragioni di studente, sia per la disperata ricerca di un impiego, intento anche a soddisfare i bisogni primari del cibo e del sesso. In entrambi questi capitoli la narrazione è fedele, esauriente, fino quasi a fornire una guida a come si soddisfano i morsi della fame in tutti i modi spiccioli, di cibo per le strade, o qualche rara volta in ristoranti stellati. Ce n’è quasi da ricavare una guida per appetiti solidi e nello stesso tempo non sostenuti da adeguate risorse economiche. Lo stesso, e anche più, si dica per gli appetiti carnali. Il protagonista è sempre pronto a “rimorchiare”, anche da questa materia si potrebbe trarre un vademecum analitico, persuasivo, una perfetta guida, e anche un capitolo di quel compito primario che a mio avviso deve essere immanente a tutta la narrativa dei nostri giorni, di stendere una enorme “critica della ragione sessuale”. In sintesi, una simile prova rende onore, fa risalire nel punteggio le prestazioni da riconoscersi ad autori praticanti nella città felsinea. Chi mi segue sa che assegno un punteggio molto basso ad alcuni suoi esponenti, a un Fois che del resto è quasi un abusivo entro le mura petroniane in cui importa una stereotipata tematica sarda: a un Nori, dalle prove striminzite ed evasive. E anche le industriose ricognizioni storiche dei Wu Ming non mi persuadono troppo. Più convincente il giallista principe, Carlo Lucarelli, sfidante del Nostro proprio in materia di bolognesità, ma perché questo autore, certamente di largo successo e rinomanza, si ostina a indietreggiare nel tempo, immergendoci in una triste Bologna degli anni di guerra, come nel recente “L’inverno più freddo”? E freddo, ingrato, anche se molto puntuale, è il ritratto che ne esce della nostra città. Mentre Ruggiero ce la restituisce verace, palpitante, in presa diretta. Del resto, la stessa efficacia egli riesce a ritrovarla anche quando i casi della vita lo portano altrove, per esempio a Parigi, e anche a questo proposito devo ammettere che, essendo un buon conoscitore della Ville Lumière, mi ritrovo con piacere e adesione negli itinerari che il Nostro ne traccia. E poi, c’è pure il paese del cuore, della nostalgia adolescenziale, in una provincia dell’Est in cui Livio è cresciuto, e va ancora a trovare la madre, ma è anche il luogo che gli suscita un “vautour”, in quanto vi è morto il padre, pilota d’aereo spericolato, votato alle acrobazie, ma rimasto vittima di una di queste. E il ricordo doloroso si affaccia, attende al varco il nostro anti-eroe, unica molla che ponga un qualche ostacolo a una “joie de vivre” diversamente piena, colma di odori colori sapori.
Paolo Ruggiero, La grande stagione, Castelvecchi, pp. 313, euro 19,50.