La mia ferrea fede nei narratori emersi negli anni Novanta agli incontri di RicercaRE, a Reggio Emilia, e codificati nell’antologia che Balestrini volle intitolare ai “Narrative invaders”, ha subito di recente qualche battuta d’arresto. Si è fatto avanti sempre più insidioso lo spettro detto dell’”autofiction”. E così ho espresso note di dubbio nei casi di Piccolo, di Pincio, e perfino del pur molto amato Covacich, mentre attendo con ansia una qualche prossima uscita di Ammaniti, per fare un bilancio sulla situazione in atto. Il mio giudizio è pure oscillato, tra bocciatura e pronta assoluzione, nel caso della Vinci, mentre un solido prodotto che non riceve smentite mi è sembrato venire dai casi pur del tutto diversi di Brizzi e di Scarpa. Ma chi dimostra una costante aderenza ai propri temi e modi stilistici è senza dubbio Rossana Campo, al punto di rischiare il licenziamento da parte di qualche editore che pretende le novità a oltranza. Infatti da lei proviene una sorta di emissione continua a bassa intensità, ma incessante, inflessibile. Non si può certo parlare di un fenomeno esplosivo di tipo vulcanico, ma di una colata lenta, che esce borbottando. Convinti dalla validità di questo prodotto di fondo, via via diversi editori si prestano a prendersene una porzione, come farebbero dei raccoglitori del caucciù sgorgante dai fusti di certe piante. Quando uno di loro ha fatto il pieno, può farsi sotto un successore ad assumere la sua fetta di torta. Che a dire il vero non è mai stata omogenea e volutamente indifferenziata come in quest’ultima opera, dal titolo per conto suo già del tutto dimesso, con riferimento, nella pima parte, al “Così contente”, che in definitiva è la coltura di base, il piacere di vivere, di sentirsi scolare addosso l’esistenza, con un misto di sventure e di colpi improvvisi di fortuna, ma così da confermare il detto ungarettiano, dell’”allegria di naufraghi”. Con la seconda parte del titolo che mette le mani avanti, “Senza nessun motivo”, ovvero, non aspettatevi grandi cose, tutto in queste pagine scorrerà nella solita normalità che avete imparato a conoscere bene da tutte le puntate precedenti. Forse nella Campo non c’è cedimento all’”autofiction” perché di questa ha sempre riempito le sue emissioni, con le due componenti che rispecchiano davvero l’autobiografia dell’autrice, l’Italietta provinciale, disgraziata, piena di guai e limiti, da cui ha sentito l’impulso di fuggire via per giungere in una Parigi certamente metropolitana, ma non tanto propizia agli immigrati, costretti a vivere ai margini, e dunque a condividere la loro sorte con ogni altro emarginato, sul lavoro, o per questioni razziali e sessuali. Ma intanto, nulla può vietare l’”allegria”, nascente dal cibo, sempre presente in queste pagine, che ci propinano anche tante ricette, ovviamente accompagnate da opportune bevute; e soprattutto da amori, tresche, avventure, innamoramenti, ormai a tutto campo. Se si vuole trovare un qualche fenomeno di crescita da un romanzo all’altro della Nostra, magari si può dire che la relazione omosessuale diviene sempre più esplicita e dominante. Tra le note caratteristiche di questo mondo, sta anche l’impasto, non solo nel cibo e nel sesso, ma anche nella condizione di donne acculturate, tanto da spingerle a fondare un club intitolato alle “Chiennes savantes”, dove però è già insito il motivo dell’ibridazione. La sapienza, che queste ragazze dimostrano dichiarando letture ad alto livello, è però abbassata dall’epiteto autopunitivo di chiamarsi “chiennes”. E del resto la lotta per la tutela e difesa dei valori della condizione femminile entra tra gli ingredienti di base di questa zuppa posta a cuocere a fuoco lento ma inarrestabile. Va da sé che una narrativa del genere si vanta, di “essere fatta di niente”, ma d’altra parte, nel minestrone, deve pur entrare qualche grumo di azione nel senso tradizionale della parola, qualche pezzo di prosciutto o osso saporito che costituisca un nucleo di resistenza, nel bel mezzo di tanto “cazzeggiare” volutamente sconclusionato e a ruota libera. Infatti, nell’assaggiare questo brodo elementare e in apparenza omogeneo, ci cade sotto i denti un fatto grosso, appartenente alla famiglia del romanzesco allo stato puro, Tra queste donne allo sbando, figura una certa Linda, resa triste dall’aver dovuto abbandonare una figlia senza genitore dandola in adozione. E c’è pure una giovane elegante, quasi di pasta diversa rispetto alla volgarità delle altre donne del club, ma anch’essa portatrice di una tristezza, di un freddo senso di solitudine. Ebbene, ci sarà una classica agnizione, degna di qualche feuilleton, le due si riconosceranno come la madre e la figlia perduta, ma il tutto, sia ben chiaro, condito assieme agli accenti volgari, agli sberleffi, alle varie profferte sul tipo di “ma non è una cosa seria” che di queste pagine sono l’humus dominante.
Rossana Campo, Così allegre senza alcun motivo, Bompiani, pp. 189, euro 17.