Ricevo una ricca produzione di Mario Rondi, in poesia e in prosa, che fa seguito a un proficuo mio contatto con lui avvenuto nell’ormai lontano 1981, quando pubblicai uno smilzo libretto dal titolo “Viaggio al termine della parola”, Feltrinelli, la mia più audacia puntata nel settore della poesia, che in genere non mi vede particolarmente attivo. In quel minuscolo saggio, accompagnato anche da un’antologia di testi pertinenti, svolgevo la tesi che, essendosi ormai espletate tutte le vie di cercare il nuovo rimanendo entro i limiti della grammatica e del vocabolario, ovvero praticando tutte le possibili combinazioni sintattiche e semantiche, agli sperimentatori rimaneva aperta una via estrema, che era di spezzare l’unità dei vocaboli per ricavarne associazioni inedite, neologismi azzardati. Era del resto la via già indicata da Joyce con il suo “Finnegans Wake”, che così si rivelava un eccellente introito alla seconda metà del secolo e oltre. Non si creda che a quel modo io indicassi una specie di ricetta obbligata, da applicare in modo uniforme e standardizzato, anzi, venivo a rendere possibili tante ingegnose varianti. Rondi, per esempio offriva come dei mozziconi di frasi che venivano continuate da possibili prolungamenti, messi tra parentesi, o segnalati da un trattino a indicare che ci poteva stare una giuntura. Mi viene da pensare alle “tendine” dei nostri cellulari, che si tirano in giù fornendo tanti dati accessori altrimenti invisibili; oppure, più semplicemente, a delle serrande di negozi che vanno su e giù, mostrando o nascondendo vetrine colme di oggetti. Nella mia multiforme attività, sono colpevole di non seguire pazientemente le mie scoperte, le abbandono al loro destino, così è avvenuto pure nel caso di Rondi, finché, di recente, lui stesso non mi ha gratificato inviandomi la schiera delle pubblicazioni successive dove sembra essersi dimenticato, lui per primo, di quella lontana modalità operativa così ingegnosa, passando a praticare una poesia del tutto esplicitata, ricca di afflussi oggettuali, di riferimenti a frutti e verdure, ad animali commestibili o no, ad ogni altra merce che si può acquistare a un supermercato o a qualche bancarella di mercatino rionale, il tutto in un tono tra il crepuscolare e il nonsensical, sulle orme di un Erba, di un Risi, o di uno Scialoja. Insomma, a prima vista, nessuna traccia del coraggioso esploratore dei vecchi tempi. Ma, spingendomi avanti nella lettura, e arrivando a un ultimo prodotto, “Amori effimeri”, Genesi, 2015, trovo un racconto che è in grado davvero di realizzare la cucitura tra quei lontani tronconi e le pratiche attuali. E’ il primo della serie, intitolato “Né carne né pesce”, dove è protagonista un certo Ferdinando, un alter ego dell’autore, che come tanti di noi frequenta abitualmente uno spaccio alimentare, ma adottando una procedura particolare, che sta nel fare razzia dei bigliettini numerati con cui si acquisiscono i diritti di precedenza nell’essere serviti. Perfetto, siamo in presenza di una via del tutto omologa all’altra a dottata a suo tempo, consistente nel porsi con piena, aperta disponibilità davanti al possibile afflusso delle merci, ovvero delle circostante, dei dati oggettuali cui fare riferimento. Infatti, quando viene “chiamato”, il nostro Ferdinando si presenta al banco, ma interdetto, stupito, frastornato dall’abbondanza dei prodotti che gli si parano davanti, per cui decide di non decidere, ovvero rifila il suo titolo di precedenza a qualche altro avventore, incredulo di questa piccola fortuna. Lui “passa”, si tiene disponibile per una prossima chiamata, salvo a ripresentare la medesima recita di una titubanza costitutiva e di una ferma decisione di non decidere. Ovvero, la decisione è di tenere aperte e sospese tutte le possibilità, né carne né pesce, come dice il titolo del racconto, che è esattamente il ritrovare la disponibilità a tentare la sorte che in quelle lontane prove veniva affidata alla punteggiatura, alle parentesi o ai trattini. Ora la stessa pratica di una generosa apertura si rivolge alla concretezza di cose corpose e tangibili, ma il modello, la formula permangono identici, pieni di lusinghe e di promesse.