Dicevo nel domenicale scorso che per me sarebbe stato un problema decidere, nel capovolgimento sistematico della cinquina uscita dal Campiello, se all’ultimo posto condannare il primo arrivato, in base alla giuria stabilita da lettori sprovveduti, Rapino, o invece il secondo, Sandro Rizziero, con il suo “Sommersione”. In entrambi noto un errore stilistico, seppure di segno contrario. Rapino crede di compiere una finezza assumendo a spron battuto il “che” dei poveri di spirito, degli sgrammaticati, di quelli che altro modo non sanno come legare tra loro le proposizioni subordinate, ma è un espediente già ampiamente utilizzato, pronto a scadere nello stereotipo. Frizziero parte da una scelta in apparenza più sofisticata, assegna al suo triste e tristo protagonista il privilegio di apostrofarsi col “tu”, che dovrebbe rivelare confidenza con se stesso, apertura ai più sottili processi psicologici. In tal senso, per esempio, lo ha impiegato il numero due del Nouveau roman francese, Michel Butor, nel romanzo che lo ha rivelato al pubblico, anche italiano, “La modification”, ma il “vous” in quel caso veniva impiegato da un personaggio “come noi”, perfettamente all’altezza della mentalità, dei mezzi , delle prospettive di un qualsivoglia borghese degli anni Cinquanta del Novecento. Invece questo approccio confidenziale ostentato da Frizziero serve solo per farci immergere nelle brutture di un soggetto che sgorga dai registri più neri e squallidi del neorealismo d’antan, già invecchiati ai tempi dei nostri Veristi, e neppure più tollerabili quando avevano tentato di rilanciarli Pasolini e Testori, nella speranza di mostrarsi “nipotini dell’ingegnere” (Gadda), come con partecipe benevolenza li aveva chiamati Arbasino, per sua fortuna invece lui stesso perfettamente in linea con l’evoluzione psichica attestata dai personaggi di Butor. Già il tutto parte da un dannoso restringimento d’orizzonte, come l’isola della Laguna dove vive questo pescatore, reo di tutti i possibili vizi e colpe, che maltratta la moglie non esitando a picchiarla, e a cornificarla in ogni occasione, diffidente verso la figlia, in cui vede un’avversaria, interessata solo a sottrargli l’appartamento, in ansiosa attesa che il genitore crepi o che se ne possa decretare l’invalidità mentale. Del resto, questo indegno protagonista fa di tutto per degradarsi, per procurarsi il peggio, passando da una bettola all’altra per ubriacarsi, tentando approcci sessuali con ogni donnetta che gli venga a tiro. Forse si potrebbe dire che, almeno, ha un momento di elevazione spirituale quando si inoltra in mare col suo burchiello dandosi alla pesca, ma a anche su questo preteso limbo, o addirittura zona paradisiaca, viene a stamparsi l’orma del delitto, della colpa. Infatti, verso la fine di questa odissea nel fango e nell’ignominia il suo cultore deve confessare, più a se stesso che agli altri, di aver compiuto un delitto, o meglio, di nulla aver fatto per sottrarre un compagno di pesca, e anche di bagordi, a un’orrida fine per annegamento. E dunque, nel tessuto cronico di nefandezze spicca anche un “vautour”, un fantasma risorgente dal passato. L’autore non nega proprio nessuna colpa alla sua creatura. Ovviamente si potrebbe obiettare che tutto questo è “vero”, senza dubbio si possono trovare, nelle circostanze ricostruite da questo romanzo, dei personaggi che vivono a quel modo, tra tante miserie e angustie e bassezze. Ma il compito di una narrativa che si rispetti è di andare ad analizzare casi in linea coi problemi dei nostri giorni, non già trame residuali sgorganti dal passato, già abbondantemente trasmesse agli atti della storia della narrativa, dossier che quindi non vale più la pena di riaprire. Oppure ci cascano proprio i lettori sprovveduti, che credono ancora di venire posti di fronte a casi degni di credito.
Sandro Rizziero, Sommersione, Fazi Editore, pp. 189, euro 16.