Guercino a Torino
Il Palazzo Reale di Torino dedica una grande mostra a Giovanni Barbieri, universalmente noto come il Guercino per un suo difetto agli occhi che certo non gli impedì di esercitare in maniera integrale il mestiere di pittore. Lo si può considerare come il continuatore del primo dei Carracci, Ludovico, colui che lo spinge in avanti fino quai a gareggiare col Caravaggio, il che non si può dire di Ludovico, incerto, trattenuto da temi arcaizzanti, timoroso di seguire il cugino Annibale sulla via di Roma, o pronto a fuggirne via. Il Guercino diceva di una pala di Ludovico che era la sua “cara zinna”, volgendo in forma dialettale la devozione e dipendenza da quella pittura, che tante volte soprattutto nei primi dipinti ha approfondito, rendendo più marcati i chiaroscuri, più forti, quasi scultoree le sagome umane. Del resto la sua dipendenza dalla famiglia carraccesca era spinta fino a seguirli nei paesaggi agresti. Ma poi anche lui aveva sentito il richiamo di Roma, dove la scuola bolognese svolse un episodio rilevantissimo dell’età barocca, e fu anche il più alto episodio della pittura felsinea di tutto l’evo moderno. Bologna non aveva particolarmente spiccato nelle fasi precedenti, il Trecento era stato troppo dipendente da Giotto, il Quattrocento dai Ferraresi, il Manierismo vi aveva visto lo svolgimento di picchi molto elevati, ma ad opera di un artista di altra provenienza, Pellegrino Tibaldi. Forse questa mancanza di un alto grado di eccellenza è derivato dalla tendenza alquanto anarchica dei Bolognesi di mandar via chi poteva determinare nella città un clima dominante, a differenza dei Medici a Firenze. Ma quando la fortuna di questo casato accennava a declinare, anche perché erano chiuse le frontiere in direzione di Roma, quando la città dei Papi stava per divenire dominante, un simile impedimento non colpì certo Bologna, seconda città del dominio della Chiesa, il che assicurava ai pittori felsinei una specie di acceso diretto a Roma, mentre i colleghi fiorentini venivano bloccati da una frontiera. Fatto sta che nella prima metà del Seicento Roma è grande soprattutto per la presenza dei pittori bolognesi, particolarmente con Annibale, ma anche con Guido Reni e il Domenichino e appunto il Guercino a recitarvi un ruolo di prim’ordine. E proprio al Reni e al Guercino si devono due punte, le rispettive Aurore, che ovviamente rispecchiavano i loro stili. Quella del Reni nel Palazzo Pallavicini Rospigliosi è dominata dalle presenze umane che tracciano già uno di quei balletti aggraziati che sono la specialità del Reni. Vi fa eco esattamente sette anni dopo (1614-1621) il tema analogo svolto dal pittore di Cento, dove, secondo la sua eredità da Ludovico, dominano soprattutto i cavalli del cocchio, e l’insieme esprime dinamismo, sbattimento di luci, un esito insomma diametralmente opposto a quello del Reni. Poi ci sarebbe dal collocare anche il grande Domenichino, che a sua volta anticipa Poussin per rigore geometrico nell’impostare le figure. Ma è anche vero che, quasi presi da capogiro per quella eccellenza raggiunta a Roma, i felsinei non ressero a lungo in quella posizione privilegiata, ci si mise di mezzo anche la sorte, che comminò ad Annibale una morte precoce, mentre il Domenichino se ne andava a morire, quando credeva di essere al culmine della gloria, addirittura nella lontana Napoli. Reni e il Guercino non ressero alle tensioni, alle ambizioni dell’ambiente romano, preferirono fare ritorno a Bologna, dove il Reni poté continuare nel suo discorso di limpidi, aerei balletti, mentre il Guercino fece in tempo ad avvertire che i tempi stavano cambiando e che era ora di prendere congedo sia da Ludovico Carracci sia soprattutto da qualsivoglia emulazione nei confronti del Caravaggio, ingentilendo il proprio discorso e portandolo quasi ad accenti di ritrovato classicismo.
Guercino, Il mestiere del pittore, Torino, Palazzo Reale, fino al 28 luglio