Una scarna notizia di cronaca annunciava, qualche giorno fa, la scomparsa di Silvia Spinelli. Forse molti non sanno che Silvia era stata a lungo l’animatrice della Galleria d’arte più intraprendente e d’avanguardia a Bologna, negli anni cruciali attorno al ’68 e oltre. Non per nulla si era data il nome beneaugurante di Galleria Duemila. Apparteneva a Giancarlo Franchi, detto familiarmente Gianchi, figlio dei due proprietari di quello spazio, uno stretto budello a fianco della farmacia Sacchetti, posta all’angolo tra Via D’Azeglio e via Marsili. GIanchi era una sorta di “idiot de famille”, posso ben usare questo epiteto in sé inglorioso in quanto il grande Sartre lo ha applicato all’ancor più grande Gustave Flaubert. Gianchi non era da tanto, ma di sicuro i genitori, e i due fratelli, lo consideravano inadatto a una normale vita di relazione e di affari, perduto in un suo regno di innocenza ingegnosa, da naif col dono dell’arte, per cui l’unica soluzione era proprio di lasciargli la gestione di quello spazietto minimo. Ma, come molti “inetti”, Franchi possedeva una sua genialità nascosta, se non altro per la capacità di scegliere bene da chi farsi aiutare, e appunto la sua scelta era andata a favore della Spinelli, lasciandosi guidare da lei, che a sua volta aveva piena fiducia in me, cosicché abbiamo costituito un terzetto capace di prestazioni avanzatissime. Io in quel momento, anni ’60 e ’70, ero il critico d’arte di punta a Bologna e collaboravo con le più reputate Gallerie del territorio, la Foscherari, la Nuova Loggia, la G 7, ma per gli interventi più avanzati e temerari mi valevo proprio di quella trincea posta in prima linea. Silvia del resto apparteneva a una famiglia con validi titoli nell’arte, basti pensare alla sorella Romana, magnifica pittrice, e moglie dello scultore Quinto Ghermandi. Qui non posso certo rifare la storia della Duemila, dopo la morte di tutti rappresentanti della famiglia Franchi, e ora finita in pessime mani. Basterà ricordare che esponevamo già Mimmo Paladino quando era pressoché ignoto. Perfino Enzo Cucchi si presentò tremebondo al nostro giudizio, ma in quel momento usava la foto, non era ancora giunto alla pittura. Però proprio in quel luogo così sperimentale ho messo alla prova sia Franco Vaccari, sia Germano Olivotto, non esitando a invitarli poi, alla Biennale di Venezia del ’72, come validi esponenti del comportamento, in una famosa rassegna, voluta da Francesco Arcangeli, in cui si mettevano a confronto le due drammatiche alternative del momento, opera e appunto comportamento. Dalla Duemila potevano venire solo i campioni della seconda alternativa. Tra tanti eventi, ricordo una performance di Giuseppe Chari, al termine della sua carriera, quando non compiva più neppure il gesto assurdo e minimale di distruggere un pianoforte sulla scena, ma si prestava a ogni possibile domanda, meglio se provocatoria, che gli potesse venire dal pubblico. Tra i tanti aspetti sperimentali messi alla prova dalla Duemila non potevano mancare quelli riguardanti la poesia visiva in tutti i suoi molteplici aspetti. Per questo aspetto io fui Galeotto perché tra gli altri invitai anche Ugo Carrega a presentare la sua poesia cosiddetta simbiotica, che era un perfetto congiungimento tra elementi verbali e oggetti fisici. Devo dire che tra gli aspetti sperimentali dell’esistenza pratica di Silvia c’era anche una vivace vita sentimentale, tanto da averle fatto partorire un figlio in giovane età, da un padre rappresentante di una grande ditta di vini, che poi lo avrebbe voluto avere al suo fianco, ma lui ha preferito stare accanto all’esistenza più avventurosa della madre. Negli anni di gestione della Duemila Silvia aveva contratto regolare matrimonio, ma poi non aveva resistito al fascino di Ugo Carrega seguendolo a Milano e dando vita con lui a una Galleria in via degli Orti. Ma poi lo aveva lasciato, aprendo un nuovo spazio tutto suo, “Avida dollars”, in pieno quartiere universitario, e richiamando in scena i vecchi eroi degli anni di gloria. Però, andata via lei, la Duemila aveva iniziato il percorso in discesa, fino alla sua cessione a dei continuatori indegni del suo passato. Ora a noi superstiti si impone un dovere imperativo, convincere il MAMBO a fare la mostra riparatrice di quel lungo pezzo di storia di prima qualità. Ma senza l’aiuto di Silvia, sarà ben difficile realizzare quest’impresa.