Ho versato calde lacrime di dolore all’annuncio della scomparsa di Salvo, avvenuta ieri mattina a 68 anni. Purtroppo c’erano già stati dei campanelli d’allarme, sul suo stato di salute, il che non gli aveva impedito di produrre in un biennio una stupenda sintesi del suo mezzo secolo circa di attività, e un grande gallerista come il modenese Emilio Mazzoli lo aveva riconosciuto, affidandomi il compito di stendere per il catalogo, a mia volta, una sintesi della “lunga fedeltà” che gli avevo tributato suppergiù per lo stesso periodo. Ora non posso che riassumere per sommi capi quanto ho già avuto tante volte l’occasione di dire, e spero anche tante altre di ripetere. Tutto per lui comincia nella Torino di fine anni ’60, alla corte di Gian Enzo Sperone e dell’Arte povera di Germano Celant, quando si rispettava rigorosamente l’assunto della cosiddetta “morte dell’arte”, come aveva prescritto lo statunitense Kosuth con i suoi famosi triangoli. Se volete significare una sedia, aveva detto quell’artista, non usate il pennello, strumento superato, bensì la foto, o l’oggetto stesso, o la definizione linguistica che ne dà un buon vocabolario. Ebbene, ai suoi inizi Salvo è stato scrupoloso seguace di queste prescrizioni, infatti ci ha dato prima di tutto delle foto in bianco e nero, dove però già avveniva un fenomeno che Kosuth non aveva previsto, Salvo cioè infilava la sua testa nei personaggi desunti dalla stampa quotidiana cui si rivolgeva, il che significava il rifiuto di una prosaica quotidianità verso il ritrovamento di uno spessore eroico, volto a conferire al dato banale dell’oggi uno stupore mitologico. Ancora più curiose le operazioni che Salvo conduceva su un altro dei cardini di quel triangolo, accettava cioè di usare le parole, come voleva il massimo esponente del “concettuale”, ma anche qui insinuava tratti depistanti. Le parole erano vergate non già con squallidi-prosaici caratteri a stampa, bensì in alfabeti nobili, degni di scritte epigrafiche, monumentali. E soprattutto, in quegli esercizi Salvo abbandonava il triste e gramo bianco e nero adottando un cromatismo squillante, ricavato dalla natia Sicilia, di cui compariva sullo sfondo il magico profilo. Ci fu allora una tenace sostenitrice del “concettuale” a Parigi, Catherine Millet, che non ci capì nulla, e scomunicò quell’accorgimento come insulso e fuori via. Aprendo una parentesi, come quasi tutti gli autori francesi d’avanguardia, a cominciare dallo stesso Roland Barthes, la Millet poi ha fatto del tutto macchine indietro, allontanandosi le mille miglia da quel rigorismo degli inizi. E a dire il vero neppure Celant in partenza ci capì nulla, e anch’io lì per lì non intravidi la nuova pista che si apriva, ma poi mi convinse proprio la pervicacia con cui Salvo continuò a battere quel suo “sendero luminoso”, e mi fu pure possibile collegarlo a quello di un altro grande apripista, Luigi Ontani, che oltretutto mi ritrovavo sotto casa, a Bologna e dintorni. E dunque, intuii che era in atto il grande rovesciamento, dallo slancio a conquistare un futuro fatto tutto di smaterializzazione progettuale, di invasione dell’ambiente, verso un ripiegamento sul passato e sul museo, ma condotto in modo sistematico e calcolato, dove quello che contava, era che il passo indietro fosse risoluto, deciso, oltranzista. Del resto, qualcosa del genere lo avevo già compreso a proposito del grande De Chirico, di cui, all’inizio dei ’70, avevo intuito l’importanza di quei dipinti “impossibili” che aveva redatto negli ultimi decenni della sua attività, dando prova di risoluto, cocciuto, provocatorio “bad painting”. Da quel momento innalzavo De Chirico alla medesma dignità di Duchamp, facendo di loro un Giano bifronte, equipollenti anche se in direzioni opposte, l’uno nel guardare avanti, l’altro indietro, ma di fatto con tanti punti in comune. E proprio su Salvo e Ontani chiusi una sfilata che un altro gallerista coraggioso come Giorgio Marconi mi permise di fare nel suo spazio milanese, accompagnandola a un titolo rivelatore, “La ripetizione differente”, con cui, me lo hanno riconosciuto in tanti, anche grazie a un remake che ne ho fatto nel 2013, in Italia si apriva la stagione del citazionismo e del postmoderno, in una delle sue accezioni più appropriate, quella che trionfava nell’architettura, di Aldo Rossi e Paolo Portoghesi, e nel design di Sottsass e Mendini, come a livello internazionale venne ammesso da tutti, senza però includere Salvo in queste celebrazioni, mentre oggi sì, Ontani ce l’ha fatta a entrare nell’albo d’oro mondiale. Mi auguro che uguale destino ora arrida post mortem al suo gemello, che del resto nei valori di mercato ha sempre marciato forte.
Noi Italiani, di solito masochisti ed esterofili, o pronti a salire sul carro dei vincitori, non abbiamo compreso fino in fondo la grandiosità di quello che avvenne allora, con i due a fare da alfieri, ma non da soli, infatti al loro seguito, in genere più giovani anche se di poco, ci furono i vari Nuovi- nuovi e Anacronisti e Transavanguardisti, che appunto la stupidaggine nazionale ha voluto dividere, da una parte i buoni, dall’altra i reprobi da rottamare, Ma il fenomeno fu unitario, guidato da quei due capofila, e del tutto simmetrico a quanto già era avvenuto mezzo secolo prima, quando già allora, dopo il 1910, De Chirico aveva fatto da corifeo trascinandosi a rimorchio tutto il nostrio “richiamo all’ordine”, costituito da Metafisica e Valori plastici e Novecento.
Salvo fu come un Sisifo nello smuovere la pietra, l’immane resistenza opposta dal “concettuale” col relativo “andare in bianco e nero”, per tentare invece di reintrodurre il colore e la pittura, ma per rendere legittimi questi recuperi occorreva accompagnare l’impresa con un effetto congiunto, l’arretramento nel passato doveva spingersi fino ai tempi “prima di Raffaello”, quando si dipingeva con colori puri, lunari, di paradiso terrestre, ignorando l’impurità atmosferica. A favorire questo indietreggiamento, c’era il sostegno della televisione, maestra nell’indicarci la via di colori incontaminati, che ignorano le mescolanze chimiche ma vanno a colpire direttamente la nostra retina. Salvo, a dire il vero, nelle centinaia di paesaggi e nature morte che ha prodotto dalla metà dei ’70, ha steso sulla tela densi e compatti pigmenti cromatici, ma cercando che questi avessero la stessa purezza incontaminata, splendore, magica risonanza di quanto ci viene dato dal pulviscolo dei pixel elettronici. Come ho detto presentandolo a Modena, attraverso di lui i grandi insegnamenti del divisionismo di Seurat e delle perfette campiture di Gauguin si sono ricongiunti, dandoci un prodotto mirabile per intensità, forza, luminosità, un insuperabile viatico per il cammino che ci attende. Caro Salvo, sarai sempre con noi.