Intervengo fuori dallo spazio canonico domenicale per compiere un nuovo commosso omaggio. Purtroppo in questo funesto inizio del 2018 abbiamo da lamentare un’altra grave scomparsa, si tratta di Domenico Colantoni (1938), un pittore a me molto caro e su cui ho steso testi impegnativi in varie occasioni. Lo si può collocare in un ambito di iper-realismo, una tendenza che a volte irrita, quando sia rappresentata da artisti solo pedanti e diligenti, ma può anche sollevarsi ad alti livelli, basti dire che due tra le più notevoli presenze del mondo anglo-americano si segnalano proprio per questo stile, penso ad Alex Katz e a David Hockney, con cui il nostro Colantoni gareggiava soprattutto nella perizia ritrattistica. Posso aggiungere che nella mia attuale ripresa di attività pittorica io stesso tendo a collocarmi in quest’area, anche se le imprimo una svolta espressionista, il che non era certo nelle intenzioni del cristallino, “angelico” Domenico. Va anche aggiunto che egli trova una continuazione, ma nello stesso tempo un rovesciamento, una opposizione da parte del figlio, un “diabolico” David che si immerge nel fango e negli orrori degli stereotipi di massa, del fumetto, dei film dello horror. Proprio l’eccellenza di Domenico nell’arte del ritratto è stata l’occasione che me lo ha fatto incontrare. Il merito va ascritto a Enzo Golino, redattore dell’”Espresso” a cui allora collaboravo, avendo l’onore di avere al mio fianco Alberto Moravia, titolare della rubrica cinematografica presso quel settimanale, allora di grande prestigio. E proprio l’autore degli “Indifferenti” fu vittima di un ricovero in casa di cura per non so quale infermità, per cui Golino spedì me al suo letto incaricandomi di ricavarne una qualche testimonianza, assieme a Colantoni come possibile estensore di un’immagine ad alta fedeltà dell’Alberto nazionale. Io ero dei pochi, tra i membri del Gruppo 63, che non avessero dichiarato guerra contro di lui, col conforto di avere accanto a me in una medesima professione di stima il numero uno del nostro movimento, Edoardo Sanguineti. Trovai un Moravia più stizzito e aspro del solito, che con voce stridula gridava “sono stanco di vivere!”, dichiarando però nello stesso tempo che in quella camera anonima si trovava benissimo, avendo sempre disprezzato l’intimità dei siti domestici. Del resto, quel momento di disarmo, di abbandono al male di vivere, risultò solo provvisorio, dato che in seguito egli giungeva addirittura a sposare Carmen LLera, la terza donna ufficiale, se non sbaglio, della sua vita, dopo Elsa Morante e Dacia Maraini. E’ incerto stabilire quali siano stati davvero i rapporti con queste donne incontrate sulla sua strada, ma posso testimoniare, nel caso delle prime due, che rimase sempre pronto a svolgere il ruolo di sostenitore della loro arte. Quando andai conoscerlo, nel ’64, fresco autore dell’unico successo della mia carriera letteraria, “La barriera del naturalismo”, oltre a ringraziarmi per la parte notevole che gli assicuravo nella mia analisi mi rimproverò per non aver concesso nessuno spazio a Elsa Morante. Avevo ragione io, in quanto il suo capolavoro, “Menzogna e sortilegio”, non balza certo fuori dal naturalismo, ma vi si immerge in modo acre, accanito, estremista. Quanto alla Maraini, siccome la neo-avanguardia fu per qualche anno alla moda, lei stessa in “A memoria” tentò di assumerne le mosse, e Moravia, da saggio padre-amante, chiese proprio a me, come persona a lui vicina, di stendere una introduzione, cosa di cui credo la Maraini si è poi vergognata, sia di aver scritto quell’opera, sia di essersi rivolta a me per una prefazione.
Ma tornando all’eccellenza ritrattistica di Domenico, ci sta che io ricordi un altro aneddoto. In quel momento, anni fine ’70-primi ’80, io ero molto vicino a Craxi e alla sua gente. Claudio Martelli mi aveva addirittura fatto entrare nell’Assemblea nazionale, ed ero pure in buoni rapporti con Ugo Intini. Io non tradisco mai vecchi amori, infatti, come forse sa qualche sparuto lettore di queste mie noterelle, ora ho adottato il culto di Renzi come naturale e storico erede del craxismo. Intini aveva avuto un doloroso lutto in famiglia, la scomparsa di un figlio ancora in giovane età, e voleva che un pittore lo facesse rivivere in un dipinto fedele. Io gli indicai senza esitare la personalità di Domenico, che eseguì troppo bene un tale compito. Infatti il padre addolorato mi disse in seguito che aveva dovuto nascondere quel ritratto troppo perfetto perché faceva soffrire una sorellina superstite, evocandole con troppo realismo la figura dello scomparso. Ma il culmine della mia vicinanza a Colantoni si è avuto quando ha ottenuto il grande privilegio di tenere una mostra personale in una sala posta nell’enorme coacervo del Palazzo Ducale di Mantova, il che fu per me la preziosa occasione di risiedere per qualche giorno nella città dei Gonzaga e di ricavarne un ricordo imperituro. In quella sua personale, Colantoni dava sfoggio a superbe nature morte, che pur affidate alla piattezza della pittura rivaleggiavano con esiti di uguale estremismo ottenuti, poniamo, da Gilardi con i suoi poliuretani, e dal duo Bertozzi-Casoni con le loro ceramiche “più vere del vero”. E beninteso si aggiungeva una bella sventagliata di capolavori ritrattistici, come nel caso di un Dorian Grey redivivo, senza il doppio esito previsto nel romanzo di Oscar Wilde, nel senso che quei capolavori non sono mai invecchiati, Domenico non ci teneva molto a se stesso, anzi, infieriva, scoraggiato da traversie sopportate quando era vissuto a Roma, che lo avevano indotto a ritirarsi corrucciato tra i monti dell’Abruzzo, pronto anche lui, come papa Celestino, a compiere un gran rifiuto. E così, i suoi ritratti non hanno mai patito offesa, se ne stanno ancora nel loro olimpo di perfezione cristallina.