Anche in questa domenica pre-natalizia lo spunto per immettere nel blog un pezzo d’arte mi viene da Artribune che annuncia una mostra di Gerhard Richter (1932) al Kunstforum di Vienna, dedicata ai suoi paesaggi, con ben 130 opere presenti. Il mio incontro, virtuale, non di persona, con questo artista è avvenuto nel 1974, quando allo Studio Marconi di Milano ho realizzate la mostra “La ripetizione differente”, cui l’artista tedesco si prestava molto bene per un suo dittico in cui inizialmente partiva dalla riproduzione di un classico di Tiziano, una “Annunciazione”, ma poi, attraverso trasformazioni successive, ne otteneva una serie di macchie disordinate e informi, come succede per esempio, a livello acustico, col passaparola, quando ci trasmettiamo l’un l’altro una frase che parte intatta ma poi si slabbra, diviene una sequenza di suoni senza senso. In definitiva Richter è sempre rimasto fedele a questo modo di procedere, da una realtà fissata in presa diretta, come avviene con una foto normale, a una sua metamorfosi via via più spinta, come se la compagine iniziale fin troppo leggibile e ordinata venisse via via scomposta, ripassata con una specie di rastrello, o, supposto che fosse stata ripresa anche con vernici, queste fossero scivolate in giù, quasi lacrimando. Insomma, da un ordine troppo ben confezionato, secondo parametri ordinari, si procede verso una pittoresca caotizzazione dell’immagine. Qualcosa di simile si può ritrovare anche in altri casi, anzi, se ne può ricavare addirittura una divisione radicale tra quanti, dopo la rivoluzione del ’68, hanno accettato l’imperativo di abbandonare la pittura ricorrendo appunto alla foto, e dunque accogliendo uno dei precetti su cui ha insistito Joseph Kosuth. Ma appunto, si dà la divaricazione, tra chi a un compito del genere si presta facendo uso di quello che viene anche detto “sharp focus”, cercando cioè di conseguire un margine di originalità attraverso un approccio al reale di lucida, fredda, esasperata aderenza. Penso in particolare ai quattro tedeschi che vengono considerati allievi della coppia Bernt und Hilla Becher, Thomas Struth e le sue visite a musei condotte con assoluta freddezza e compostezza, Thomas Ruff coi suoi ritratti più veri del vero, Andreas Gursky con le sue folle brulicanti, come polipai verminosi, Candida Hofer con le sue rassegne di interminabili scaffalature trovate in archivi e biblioteche. A questa compagnia si potrebbero aggiungere pure i referti del canadese Jeff Wall, con le sue scene di soffocante angustia domestica, forse però con qualche adito a possibili interpretazioni allegoriche. Ma in definitiva la mia preferenza va a chi tenta di fuggire da questa prigione un’immagine troppo cruda e ferma, forse qualcuno in proposito ricorda l’omaggio che ho dedicato qualche domenica fa a Cindy Sherman, che riscatta il riporto troppo meticoloso consentito dal riporto fotografico caricando di vesti e ornamenti in eccesso il modello, la persona posta davanti all’obiettivo. E un massimo di caricamento, così da rendere drammatico il riporto fotografico, lo abbiamo anche in David La Chapelle. Invece, come detto sopra, la via scelta da Richter per ottenere comunque effetti appartenenti alla medesima categoria di un esodo dal conformismo è quella di strapazzare i referti ottenuti con la “camera”, come se l’immersione nella bacinella dello sviluppo non fosse andata nel modo giusto. gli strati di colori fossero scivolati in giù, dando luogo a marezzature, a effetti paludosi che ovviamente non sono negli originali. Ovviamente se al tradizionale procedimento fotochimico l’artista tedesco sostituisce la tecnica elettronica fondata sui pixel, queste deformazioni si ottengono ancor più facilmente. Si conferma comunque un viaggio industrioso tra due terminali, partenza da visioni che non potrebbero essere più conformi, irreprensibili, anonime, da dilettante del mestiere, ma da lì si procede verso effetti di un pittoricismo quasi preterintenzionale, ottenuto facendo ricorso al caso.
Gerhard Richter, Paesaggi. Vienna, Kunstforum, fino al 14 febbraio.