Arte

Richter: un viaggio da Tiziano all’Informale

La visita virtuale di questa domenica mi porta a Mantova, Palazzo Te, ma non per partecipare alle celebrazioni che vi si tengono dedicate al genio di quel luogo, Giulio Romano. Ho già “dato” ampiamente in questa direzione, dedicandogli un intero corso di quando insegnavo Fenomenologia degli stili al DAMS di Bologna, e portando anche in devoto pellegrinaggio a quelle stanze, anche con inclusione di quanto l’artista ha fatto nel Palazzo Ducale, una nutrita schiera di allievi. Ora vi trova posto un evento certo più limitato, ma del tutto caratteristico, e caro al mio percorso personale. E’ un omaggio che uno dei maggiori artisti tedeschi di oggi, Gerhard Richter, aveva già indirizzato a Tiziano, rivolgendosi a una sua “Annunciazione”, assumendo nei confronti di quel dipinto l’umile ruolo del copista, ma, diciamo così, alquanto sbadato, tanto da non fornire certo una copia fedele dell’originale, ma al contrario da apparire maldestro, fino a impastarla, slabbrarla, renderla via via irriconoscibile. Era insomma un caso memorabile di quanto, nel ’74, ebbi modo di definire col binomio di “Ripetizione differente”, in una mostra tenuta all’allora Studio Marconi di Milano (1974), che lo stesso titolare, Giorgio Marconi, mi ha consentito di replicare un trentennio dopo (2012), e non potevo certo mancare di ripresentare proprio quel procedimento in apparenza confusionale e volutamente “sbagliato” attraverso cui Richter, passo dopo passo, imbrogliava le piste e trascinava il capolavoro tizianesco da un massimo di icasticità fino a un guazzabuglio di informalità, di pennellate stese a ruota libera. Era un modo per segnalare quanto avviene al giorno d’oggi attraverso le varie repliche, fotocopie, travasi da un contenitore all’altro. Il che può anche ricordare quel giochetto, ma di portata acustica e non visiva, attraverso cui si sceglie una certa parola e poi ciascun membro coinvolto nella partita la sussurra rapidamente nell’orecchio del vicino, ma nei passaggi successivi succede proprio che la parola iniziale, anche in questo caso, si slabbra, si deforma, per cui, alla stazione di arrivo, quando l’ultimo ricevente è invitato a dire ad alta voce quanto ha recepito, salta fuori un suono che ben poco ha da spartire con quello di partenza. Richter stesso ha capito che attraverso quel deliberato procedimento di deformazione di un’immagine originale aveva messo mano a qualcosa di assolutamente tipico dei nostri giorni, al punto da richiamare quella sua avventura lontana ormai quasi mezzo secolo, e ora riproporla, nella sequenza dei passaggi successivi. Del resto, in quell’esperimento l’artista tedesco ha adombrato l’intera sua avventura stilistica, che si è sempre svolta tra due terminali, un’immagine di alta definizione fotografica, e poi il via libera a una serie di metamorfosi in cui il precisionismo iniziale dà luogo a un pittoricismo scatenato, libera, a una sinfonia di colori, macchie, grovigli. Un’alfa e omega di ogni possibile avventura visiva dei nostri giorni.
Gerhard Richter, Il cielo sulla terra. Mantova, Palazzo Te, fino al 6 gennaio. Cat. Corraini.

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