Apro questo pezzo pronunciando un elogio di François Pinault, l’industriale e collezionista francese che si è aggiudicato Palazzo Grassi, dopo il periodo di appartenenza di questa sede alla Fiat, organizzatrice di mostre per così dire generaliste, non sempre di stretta attualità. Con lui invece si è tornati ai tempi di Paolo Marinotti, allora alla testa della Snia Viscosa, quando quel luogo era vetrina dei più importanti accadimenti contemporanei. Più di recente, come noto, Pinault si è impadronito pure di Punta della Dogana, stabilendo una buona sinergia tra i due contenitori, e con un vantaggio rispetto alla stessa Biennale, i cui direttori sono costretti a una turnazione, devono cioè alternare gli ospiti di maggiore prestigio, mentre il privato Pinault è libero di insistere su chi più gli piace, e in genere il suo gusto è raffinato e accettabile.
Anche l’attuale ampia retrospettiva dedicata al francese Martial Raysse (1934) conferma questa calamitazione su autori di stretta attualità. Infatti era doveroso prendere in esame questa controversa figura, anche se la pagella conclusiva da assegnarle non può essere positiva, ma seguirne la movimentata carriera è comunque istruttivo. Forse a Raysse, o alla curatrice Caroline Bourgeois, se la decisione è dipesa da lei, si deve imputare un fatale errore iniziale, quello di aver cancellato la cronologia della sua produzione, mescolando le varie puntate da lui effettuate su un ampio spettro di soluzioni. Così però il povero visitatore, se oltretutto non particolarmente informato sugli sviluppi dell’arte lungo ormai un mezzo secolo, è sottoposto a una specie di doccia scozzese, o a un pirandelliano “uno, nessuno, centomila”. Certo, Raysse può affermare che dietro le varie mutazioni c’è sempre lui, pronto a cambiare di volta in volta il pedale, di cedere alle sollecitazioni della moda, al cambio degli stili. Questa vicenda sarebbe istruttiva, o addirittura esemplare, ma purtroppo il criterio assunto la rende illeggibile. Si aggiunga inoltre che Raysse, di cui senza dubbio si può lodare la prontezza di riflessi nel cogliere le soluzioni del giorno e nell’adeguarvisi, è però in genere un cattivo realizzatore, un pittore o comunque un artista mediocre, dove semmai l’assoluzione può venirgli proprio da questa prontezza di riflessi nel cogliere l’attimo fuggente.
Anni Sessanta: è il periodo in cui questo enfant prodige partecipa alle avanguardie del momento, firma addirittura con artisti più anziani di lui, sotto la guida di Pierre Restany, il manifesto del Nouveau Réalisme, ma in realtà non è in lui il gusto per l’accumulazione degli oggetti, lo attrae di più il culto dell’immagine “popolare”, chiassosa, policroma, e dunque gli calza di più, a voler rimanere pur sempre nelle acque territoriali perimetrale da Restany, la inclusione nella Mec Art, il tentativo a dire il vero non felicemente riuscito da parte dello stesso Restany, di fornire un pendant rispetto alla trionfante Pop statunitense. Così si dica delle immagini del Nostro, rinforzate da tubi al neon e da quanto le poteva rendere competitive sul fronte dei mass media. Proprio questa calamitazione sull’immagine, sull’iconosfera, sempre arricchita dalle seduzioni della policromia, lo induce a saltare con l’asta il ’68 con le varie soluzioni concettuali, comportamentiste e simili, mentre egli ritorna in pista quando, agli inizi dei Settanta, scatta la stagione dei recuperi, del citazionismo, della “mode rétro”, con il ritorno della pittura. Proprio per tale ragione Raysse non si sarebbe dovuto rifiutare a un preciso riscontro soprattutto rispetto ai suoi cugini d’oltralpe, a movimenti come i Nuovi nuovi, con Ontani e Salvo alla testa, o con la Transavanguardia, o con gli Anacronisti. Egli ne è forse il più accreditato corrispettivo in terra di Francia, e così si spiegano le decine di ritratti, di opere addirittura pompier, volutamente immerse nel kitsch più irritante. Un altro reato del Nostro è anche di disperdersi in una produzione troppo abbondante, affidata a tanti lavoretti, disegni, dipinti di minime proporzioni, brevi lacerti, mentre invece si seguono con maggiore attenzione certe imprese di largo impegno, di un moralismo sospeso tra aspetti revivalisti, alla Balthus per intenderci, e invece brutalismi, soluzioni primitiveggianti, quasi di arte naif. Parlavo qualche giorno fa di Rousseau e del suo messaggio “altro”, lontano da ogni stilismo univoco e coerente. Ebbene, anche da Raysse viene un insegnamento del genere, a battere tutte le vie possibili, nulla al giorno d’oggi è proibito, non si deve avere neppure paura di cadere nel ridicolo. Va anche detto a sua lode che egli non esita ad applicare la stessa ricetta anche nelle tre dimensioni, con una serie di oggettini anche loro tra il provocatorio, il mercatino dell’usato, l’invenzione estemporanea ma umorosa, il prodotto da Wunderkammer. In fondo, è da quell’immaginario che parte pure il grande Koons, mentre Raysse lo realizza in modi troppo corsivi, non dedicandogli la necessaria abilità artigianale.
Martial Raysse, Futurologia 2015-1958 / 1958-2015, a cura di Caroline Bourgeois, Venezia, Palazzo Grassi, fino al 30 novembre, cat. Marsilio.