Ho pure sul mio tavolo, ma acquistato coi miei soldi, dato che a un critico “inesistente” come il sottoscritto non vale più la pena mandare volumi in omaggio, il romanzo di Fabrizia Ramondino, “Alténopis”, uscito nel 1981, ora riproposto con fragore di trombe dopo la scomparsa (2008) dell’autrice, cui è stato pure dedicato un ponderoso omaggio della rivista “L’illuminista”, con una galleria di bei nomi della critica concordi nell’elogio. Io francamente non ne sapevo nulla, ma fin dal primo momento mi sarei dissociato da questo clima celebrativo, anzi, ne avrei tratto lo spunto per stabilire un confronto coi parametri imposti a quei tempi della neoavanguardia e per confermarne la necessità, la rispondenza a quanto richiesto in quel momento dalla società, da ogni indicatore di carattere collettivo. E’ incredibile quanto quella prova, pur uscita in una stagione così avanzata, fosse immune da ogni lievito e fermento dell’attualità. Se vogliamo, siamo in presenza di una scrittrice coi suoi meriti, ma tutti volti al passato. Nelle sue pagine colgo echi di tanti capitoli della nostra storia, anche dei migliori e più appassionanti. Si respira un’aria perfino da Castello di Fratta, alla maniera di Ippolito Nievo, o riviviamo le perfette ricostruzioni ambientali di un De Roberto, impareggiabile nel penetrare nei salotti della buona nobiltà e proprietà terriera del Sud, nell’inseguirne i sintomi di decadenza, i rigurgiti di una vecchia agiatezza che non vuole cedere. Risalendo per li rami si arriva fino al Gattopardo, che a suo tempo, in fase di superamento della “barriera del naturalismo”, avevo salvato, in nome di un residuo fascino pur sempre esercitato da vecchi titoli di nobiltà meridionale, cedendo per un’ultima volta al motto che in Italia si deve cambiare tutto per non cambiare nulla. Ma ritentare la via della nostalgia tanti anni dopo diventa eccessivo, meglio che risuoni il fischio del fuori gioco. Tanto più che è inutile agitare un termine più vicino alla Nostra, quello del grande, e a me sempre caro, proprio in nome di giusti recuperi, Domenico Rea. Qui non c’è nessuna “ninfa plebea”, a cominciare dalla protagonista siamo in presenza di rappresentanti di una nobiltà o di una borghesia tra la decadenza e invece sussulti di abili operazioni di borsa che rilanciano compromesse e ridotte fortune. Resta però sempre ben evidente la distanza da mantenere con i membri del quarto stato, nella funzione di umili domestici o di cuoche, con un unico punto di confluenza, che sta nel celebrare la gloria dei cibi, tanto più ghiotti quanto più vincolati alla terra e alle tradizioni popolari. Ma certo, alla protagonista, e alle sue compagne di censo, non succederà di dover “ingerire la varechina” come capita invece alle povere figlie del popolo abbandonate incinta da fidanzati traditore. Magari la galleria di zii e zie è deliziosa, a cominciare dai loro nomi, Callista, Cleope, Ea, Chinchino, e gustosi sono i salotti in cui entriamo, in propizie oscurità che tentano di celare il degrado del mobilio. Naturalmente, non è che la migliore cultura di quegli anni avesse abbandonato del tutto simili sfondi di società arretrate e fuori moda. Penso a certe figure di impenitenti zitelloni riminesi che nell’epopea felliniana indugiano coi capelli raccolti in una reticella, o agli interminabili pasti di fidanzamento di cui Pupi Avati è insuperabile cronista. Ma poi i Fellini e gli Avati si può scommettere che da quei pigri fondali di dimesse cronache anteguerra escono scattando in avanti, a cogliere i drammi, le psicosi, le crisi della nostra attualità, qui invece di scatti compensativi non ce ne sono mai, continua, certo efficace, sensuosa, turgida di valori impressionisti, questa dimessa ricostruzione di un passato che non cede, che non se ne vuole andare, che resta a dominare, a sbarrare il passo.
Fabrizia Ramondino, Althénopis, Einaudi, pp. 288, euro 23.